Guerra all’Arte
/in Esibizioni /da barattoloGUERRA ALL’ARTE – il Futurismo come avanguardia del sublime dinamico
di: GIORGIA BORDONI
(stagione 1)
Movimento eclettico, poliedrico e controverso, il Futurismo italiano è la prima avanguardia artistica europea del Novecento. L’onda d’urto del suo dinamismo scuote i canoni estetici tradizionali e come un ordigno apre una breccia in tutte le sperimentazioni dell’arte e della letteratura contemporanea. Una nuova idea del sublime irrompe vorticosa. Difficile da catalogare. Impossibile da arginare.
– Per le citazioni, la bibliografia e il dipinto relativo a ogni puntata, aprire le schede qui in basso –
Copertina della serie: Giacomo Balla, “Velocità di automobile”, 1913
GUERRA ALL’ARTE – il Futurismo
di: GIORGIA BORDONI
(stagione 1)
– Per le citazioni, la bibliografia e il dipinto relativo a ogni puntata, aprire le schede qui in basso –
Copertina della serie: Giacomo Balla, “Velocità di automobile”, 1913
il Futurismo come avanguardia del sublime dinamico
Movimento eclettico, poliedrico e controverso, il Futurismo italiano è la prima avanguardia artistica europea del Novecento. L’onda d’urto del suo dinamismo scuote i canoni estetici tradizionali e come un ordigno apre una breccia in tutte le sperimentazioni dell’arte e della letteratura contemporanea. Una nuova idea del sublime irrompe vorticosa. Difficile da catalogare. Impossibile da arginare.
PUNTATE DELLA SERIE:
1. Il “Meraviglioso Moderno”
2. Arte totale dell’ibrido umano-macchina-bestia
3. Il culto dionisiaco del macchinico
4. Il Futurismo italiano nelle sue irradiazioni internazionali
5. Dipingere il dinamismo
6. Aeropittura e nuova estetica del sorvolo
7. Fotodinamismo o del riverbero dell’immagine
8. Donne futuriste
9. Marinetti parolibero, visivo, sonoro (Prima parte)
10. Marinetti parolibero, visivo, sonoro (Seconda parte)
11. Palazzeschi. L’etica del fuoco e l’uomo in fumo
12. FuturBalla. La forma della velocità (Prima Parte)
13. FuturBalla. La forma della velocità (Seconda Parte)
14. FuturBalla. La forma della velocità (Terza Parte)
15. Plastica vorticosa del movimento in Boccioni (Prima Parte)
16. Plastica vorticosa del movimento in Boccioni (Seconda Parte)
17. Plastica vorticosa del movimento in Boccioni (Terza Parte)
18. Plastica vorticosa del movimento in Boccioni (Quarta Parte)
19. Carlo Carrá. La pittura dei suoni, dei rumori, degli odori (Prima Parte)
20. Carlo Carrá. La pittura dei suoni, dei rumori, degli odori (Seconda Parte)
21. Il cubo-futurismo di Goncharova
22. Linee di fuga
Immagine della puntata: Giacomo Balla, “Velocità di automobile”, 1913
L’onda d’urto del Futurismo fa tremare di vertigine improvvisa la cultura italiana del primo novecento. Apripista di tutte le avanguardie artistiche europee, questa nuova sensibilità estetica sorge feroce come un “rimosso” freudiano dal cuore del Romanticismo. All’ammirazione nostalgica del passato e delle sue vestigia, essa contrappone una nuova “religione del moderno” e una bellicosa nostalgia di futuro. Nel dichiarare guerra all’arte classica “dei musei”, il Futurismo italiano si dichiara al mondo come arte totale in cui pittura, scultura, letteratura, poesia, musica e teatro innescano un ammutinamento contro tutti i temi, i modi, i canoni e i metri dell’arte tradizionale. Iniziando a prestarsi reciprocamente metodi e strumenti d’espressione, tutte le arti si intrecciano, si contaminano, si amplificano, si espandono fino ad esplodere in un carnevale dell’ibridazione umano-macchina-bestia. I grandi rivolgimenti esistenziali e culturali innescati dalla Rivoluzione Industriale e dal progresso tecnologico di fine ottocento, insieme ai venti di guerra che attraversano l’Europa all’inizio del “secolo breve”, ispirano le direzioni e le vocazioni di questa nuova etica dell’arte. L’anima futurista parla nel vitalismo forsennato, in un neo-barbarismo che esalta trionfante la velocità, la potenza delle nuove macchine, la giovinezza, la violenza e la guerra come nuove Muse e oggetti di culto, forze inarrestabili e brutali di una nuova cosmogonia votata al sublime dinamico.
Non stupisce che l’avanguardia futurista abbia prediletto il “manifesto” come forma di presentazione della propria poetica. Nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti scrive il Manifesto Futurista, che raggiunge fama internazionale dopo essere stato pubblicato dal quotidiano francese Le Figaro. Nella concisione, nella velocità e nell’immediatezza di un formato di matrice e destinazione politica come il “manifesto”, che annuncia senza spiegare e che sembra essere da subito performativo, i futuristi hanno lanciato il loro grido di battaglia al mondo contro ogni culto dell’antico, del passato, della Storia. Tutte le successive avanguardie “storiche” del primo Novecento, a cominciare da quelle con le quali il Futurismo si è confrontato maggiormente, cioè il Cubismo e il Surrealismo, erediteranno la stessa modalitá del manifesto; è infatti del 1913 il Manifesto del Cubismo scritto da Guillaume Apollinaire, mentre il Manifesto del Surrealismo di André Breton arriva nel 1924. Il Manifesto Futurista non lascia spazio a fraintendimenti sui suoi demoni d’ispirazione: “Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poichè ci sentivamo soli, in quell’ora, ed esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli, coi fuochisti che s’agitavano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa… Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una nuova bellezza: la bellezza della velocità… Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro…. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il tempo e lo spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, perchè abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente…Volete dunque sprecare tutte le vostre forze migliori, in questa eterna e inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti?… Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi! … Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!” (Marinetti, Manifesto futurista, 7-14). Il duello “siderale” che il Futurismo ingaggia in direzione anti-passatista, il suo cinismo sferzante e rivoltoso contro l’arte tradizionale e il suo nichilismo incendiario nascondono uno stretto rapporto di negazione dialettica con le forme dell’arte del passato, e soprattutto con quella che immediatamente lo precede: il Romanticismo.
In Teoria dell’arte d’avanguardia (1962), lo studioso Renato Poggioli lascia emergere il quadro critico della tensione interna fra la sensibilità estetica del primo novecento e quella del secolo ad esso precedente: “Come stati d’animo, cinismo e nichilismo sono vecchi quanto il mondo. Ma è proprio nella trasposizione di quegli stati d’animo dalla sfera passiva del costume alla sfera attiva della coscienza culturale e artistica ch’essi diventano fatti storici: e non c’è dubbio che gli strumenti moderni di tale trasposizione sono stati precisamente il Romanticismo e l’Avanguardia. Quello che caratterizza l’arte d’avanguardia e quindi il mito del nuovo. Perciò nulla di più nuovo e moderno che il culto moderno del nuovo” (Poggioli, 237-239). Con queste parole, Poggioli presenta con estrema chiarezza il rapporto esistente fra il Romanticismo e avanguardie storiche precisamente sottolineando quanto la natura del contrasto fra queste due dimensioni creative fosse, in campo artistico e letterario, configurata all’interno di un rapporto che resta, per così dire, dialettico. Tuttavia, la modalità moderna di porre il “nuovo” al centro della sperimentazione artistica, ovvero la prospettiva da cui le avanguardie storiche hanno cercato il nuovo, non ha precedenti nella storia dei movimenti d’arte: “i moderni cedono quasi sempre alla tentazione di cercare, senza pace né tregua, le terre incognite dell’arte e della cultura. Per scoprire le zone sconosciute dello spirito i moderni sono disposti a scalare il cielo e a violare l’inferno, a discendere, secondo il verso di Baudelaire, Au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau” (Poggioli, 239). Poggioli fa risalire lo Zeitgeist delle avanguardie storiche – lo spirito del Tempo, il demone estetico e poetico dell’intera epoca della ricerca del nuovo che si apre nel primo novecento – ad un autore ottocentesco che si rivela fautore di un avanguardismo ante-litteram già in epoca romantica, colui che si potrebbe definire un “inattuale” rispetto al suo tempo: Arthur Rimbaud. È dunque partendo da questo approccio esegetico che Poggioli scrive: “In nessun documento questa volontà di ricerca del nuovo dentro l’ignoto, e dell’ignoto oltre il nuovo, si trova espressa con tanta intensità e sincerità come in quel testo di Rimbaud a cui la posterità ha dato il nome di Lettre du Voyant. ‘Io so che bisogna essere veggente, farsi veggente’ ” (Poggioli, 239).
È in direzione di una veggenza intesa, con Rimbaud, in senso insieme anti-romantico e ultra-romantico, cioè intesa come rivelazione e scoperta che, a mio avviso, si deve approcciare la trasvalutazione nichilistica dei valori estetici del romanzo realista ottocentesco e dell’arte romantica tutta da parte delle avanguardia storiche: come in qualche modo già preparata dalle convulsioni e inquietudini esistenziali e artistiche di fine ottocento. Le nuove tecniche letterarie e artistiche che le avanguardie storiche hanno impiegato nella sperimentazione linguistica ed estetica – al fine di spostare o capovolgere completamente l’asse metafisica su cui si appoggiava il soggetto narrante ottocentesco e il suo modo di raccontare il mondo e di raccontarsi in esso – sono di certo preparate da una situazione storico-esistenziale del soggetto umano che non ha precedenti: la catastrofe del posizionamento dell’uomo nel mondo del XX secolo provocata dalla Rivoluzione Industriale. Le avanguardie aprono la scena che esprime artisticamente il nuovo posizionarsi umano, ne sono in qualche modo la risposta stilistica e la cassa di risonanza, ma anche il vettore tanto critico quanto “euristico”. Le avanguardie storiche hanno infatti indagato la cifra essenziale del terribile ignoto che giaceva al fondo della nuova situazione antropologica del primo novecento, hanno percorso e praticato lo spazio aperto da questo “nuovo” nuovo in un’attitudine che mantiene una tonalità messianica e apocalittica, ma senza alcuna speranza escatologica. Si può dire, con Poggioli, che le avanguardie restano in una “generosa apertura futuristica”, infatti nel pathos storico del primo novecento si comprende come “l’atto creativo abbia luogo in uno stato di crisi. È evidente che l’agonismo d’una epoca quale la nostra, dominata da un’ansia e da un’angoscia aliene ad ogni redenzione metafisica o mistica, va anzitutto concepito come sacrificio al Moloch della storicità” (Poggioli, 82-83). Le avanguardie storiche avvertono il sentore apocalittico della catastrofe di un’epoca a cui non possono scampare e a cui, soprattutto, non vogliono sottrarsi, ma che alimentano e che accelerano con impeto iconoclasta: “lo stesso spirito dei movimenti d’avanguardia è d’autosacrificio e d’auto-consacrazione a quelli che seguiranno…in pratica le avanguardie del primo quindicennio del secolo hanno poi in generale subìto la sorte delle avanguardie di guerra, da cui ha preso l’immagine: gente destinata al macello, perché dietro a essa altri possa fermarsi e costruire” (Bontempelli, 1938). La necessità di trasformare delle forme narrative e quelle della figuralità stilistica rivelata dalle avanguardie storiche in campo letterario e artistico è pertanto interna al compito di scoperta dell’ignoto che all’artista è richiesto dal proprio tempo. Seguendo ancora Poggioli su Rimbaud: “la missione dell’artista consiste dunque nel tentativo che Rimbaud descrive come ‘ispezionare l’invisibile e ascoltare l’inaudito’. Anche quando l’opera d’arte sia condizionata dalla coscienza del proprio Zeitgeist, il suo compito resta pur sempre quello di esprimere quel senso dell’ignoto mediante il quale il genio dell’epoca trascende sé medesimo: ‘Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che si risveglia nel proprio tempo, nell’anima universale’. Donde l’esigenza dell’esperimento, anche in senso tecnico e formale, ma sempre nella direzione dell’ignoto e del nuovo: ‘le invenzioni dell’ignoto, esigono forme nuove’. Agendo nel senso delle tendenze qui designate coi termini di agonismo e futurismo, i poeti e gli artisti della generazione presente prepareranno almeno il terreno per le epifanie estetiche dell’avvenire: ‘Mentre aspettiamo, chiediamo al poeta del nuovo idee e forme…’. Nessun’altra proclamazione pubblica o privata ha esposto negli ultimi cento anni il credo dell’arte d’avanguardia con la lucida violenza di questo testo. Basta la lettura di questa pagina a provare la novità dell’idea moderna del nuovo, come la modernità della nuova idea del moderno” (Poggioli, 239-240).
Un anelito profondamente nietzscheano spira in questo ‘moderno culto del nuovo’ prefigurato da Rimbaud, che è ad un tempo al cuore e al tramonto della sensibilità ottocentesca. In esso risuona infatti la parola futurista di Zarathustra sugli “amici dell’avvenire”, l’esortazione all’attesa dei poeti che verranno grazie allo spazio apocalittico ma non escatologico dischiuso dall’avanguardia storica. Rifiutando l’ordine antropologico-ontologico dell’arte ottocentesca e cosí la sua sistematica onniscente quale matrice narrativa e filosofica essenziale, l’avanguardia non ha ceduto però mai alla tentazione di “farsi scuola”. Essa è rimasta fedele alla sua vocazione di “movimento”, è rimasta in movimento: “un movimento si forma ed agisce per non altro fine che il movimento medesimo, per un godimento puramente dinamico, per il gusto dell’azione, l’entusiasmo fisico e sportivo, il fascino dell’emozione e lo spirito d’avventura. Tale è il primo degli aspetti dei movimenti d’avanguardia” (Poggioli, 39). La profonda storicità dell’avanguardia storica, così essenzialmente diversa anche da quella del più “avanguardistico” dei romanticismi, risiede nel doppio gesto di negazione e affermazione; in altre parole nell’aver incorporato simultaneamente il “grande NO” e il “grande SI” di insegnamento nietzscheano. È esattamente l’estetica della libertà totale che incarna ciò che Poggioli definiva il momento nichilistico delle avanguardie storiche: “Se l’essenza del momento attivistico è d’agire per il gusto d’agire, e del momento antagonistico d’operare nel senso di una reazione negativa, quella del momento nichilistico è di raggiungere la non-azione attraverso l’azione, di lavorare non per costruire, ma per distruggere. Non c’è movimento d’avanguardia dove questa tendenza non si palesi almeno in parte, al di qua e al di là degli impulsi attivistici e antagonistici. Nel Futurismo italiano tali impulsi si rivelano come i più profondi e autentici: ma vi apparve anche lo stimolo della distruzione nichilistica.” (Poggioli, 76). “Creare distruggendo” è a mio avviso espressione ossimorica che traduce, con maggior precisione e rigore, la cifra della sensibilità delle avanguardie e soprattutto l’estetica del Futurismo; in essa si esprime, inoltre, la consapevolezza dell’epoca di crisi in cui la poetica d’avanguardia si trova ad operare creativamente. La negazione opposta dall’avanguardia storica alla pulsione a cui ogni corrente artistica potrebbe cedere (quella di trasformarsi in scuola, norma, sistema) è proprio la condizione di possibilità affinché l’avanguardia possa rispondere alla sua vocazione d’essenza: aprire l’affermazione futuristica a ciò che verrà, ai nuovi poeti del nuovo nuovo, di quello che Poggioli chiama “Meraviglioso Moderno”.
Bibliografia
Bontempelli, M., 1938, L’avventura novecentista: selva polemica.
Howlett, J., Mengham, R., 1994, The violent muse. Violence and the artistic imagination in Europe 1910-1939, Manchester University Press.
Lyotard, J.-F., 1979, La condition postmoderne, Minuit; Eng. 1984, The Postmodern Condition, Minnesota University Press.
Marinetti, F. T., Fondazione e Manifesto del Futursimo (1909), in 1968, Teoria e invenzione futurista, I Meridiani, Milano, Mondadori.
Poggioli, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
Siti, W., 1975, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi.
Immagine della puntata: Giacomo Balla, “Linee di velocità“, 1913
Il “Meraviglioso Moderno” è il sogno estetico a cui tende l’avanguardia futurista attraverso la sua sperimentazione artistica e la sua ricerca “nuova” del nuovo. La contaminazione fra umano, macchina e bestia è l’idea-guida che questa spinta creativa pone al centro della sua opera come veicolo per esprimere l’essenza distruttiva e palingenetica del meraviglioso moderno, l’epoca che crea distruggendo. L’arte futurista può infatti essere considerata un’enorme e poliedrica mimesis che ripete e come uno specchio riflette, trasfigurandolo, il clima bellicoso e tumultuoso di inizio novecento. In altre parole, riuscire ad imitare la Guerra, a mettere in scena il grande spettacolo delle sue vibrazioni, dei suoi fischi, delle sue esplosioni e dei suoi crolli ma soprattutto dei suoi assemblaggi fra mondo umano, spazio macchinico e dimensione animale-naturale mediante l’arte, è ciò che ispira ed esalta gli artisti del futurismo.
In Il teatro futurista sintetico, il fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti, scrive: “La Guerra è futurismo intensificato; è la velocità feroce, travolgente e sintetizzante” (Marinetti, Il teatro futurista sintetico, 113). La Guerra è quindi l’accadimento storico in cui il sublime dinamico affiora in modo immediato. Infatti è proprio la Prima Guerra Mondiale del 1914-1918 l’evento cruciale che inaugura una nuova violenza della velocitá che coinvolge, per la prima volta nella storia delle pratiche militari, i dispositivi automatici e nuove tecnologie della meccanica. Per l’estetica futurista, la Guerra moderna è “intensificazione del ritmo della vita moderna”, mostra in modo crudele e potente ogni tipo di combinazione fra corpo umano, istinto animale e ingranaggio meccanico. L’eccitazione che i futuristi provano di fronte all’orrore della “Grande Guerra” si appoggia in verità sull’energia, sulla carica di elettricità esistenziale che essa sprigiona. La guerra all’arte tradizionale ingaggiata dal futurismo italiano prende infatti la forma di un’arte totale, un’arte dell’energia pura in cui le forme della produzione artistica guerreggiano e si compenetrano. La pittura, la scultura, la letteratura futuriste fabbricano opere artistiche in cui si dissolvono tutte le barriere fra voce umana, suono e verso animale, rumore della macchina, parola alfabetica e segno matematico, tratto e tono cromatico.
Sul palcoscenico dell’arte totale futurista, l’epica della guerra si mostra nel gioco combinato in cui i modi di espressione dell’uomo, della macchina e dell’animale raggiungono il punto massimo di indistinzione. L’avanguardia futurista è una “macchina da guerra” sia perchè giura eterna guerra all’arte ‘umanistica’ tradizionale, sia perchè la guerra (e nella fattispecie la guerra moderna) ne costituisce il modello estetico essenziale. Il dispositivo futurista assorbe l’essenza vorticosa del reale storico e lo restituisce nella sua poetica della raffigurazione. Nei diversi manifesti futuristi che Marinetti scriverà subito dopo quello programmatico, cioè in quelli che riguardano il concetto che l’avanguardia futurista ha sulla missione delle diverse forme d’arte, produrre arte totale è considerato un fine prioritario. La stessa dichiarazione di intenti del futurismo accade anche all’inizio di alcuni romanzi del movimento: “Le parole in libertà orchestrano i colori, i rumori e i suoni, combinando i materiali delle lingue e dei dialetti, le formole aritmetiche e geometriche, i segni musicali, le parole vecchie, deformate o nuove, i gridi degli animali, delle belve e dei motori”. (Marinetti, Gli Indomabili, 921-922).
Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, ad esempio, Marinetti afferma: “Sorprendere, attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi, la respirazione, la sensibilità, e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia. La materia appartiene al poeta divinatore che saprà liberarsi della sintassi tradizionale. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l’essenza della materia. Le parole liberate dalla punteggiatura irradieranno le une sulle altre, incroceranno i loro diversi magnetismi, secondo il dinamismo interrotto del pensiero. Uno spazio bianco, più o meno lungo indicherà al lettore i riposi o i sonni più o meno lunghi dell’intuizione. La distruzione del periodo tradizionale permetterà al poeta futurista di utilizzare tutte le onomatopee, anche le più cacofoniche, che riproducono gli innumerevoli rumori della materia in movimento”. (Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 46-54).
L’idea futurista della letteratura dona da direttrice anche a tutte le altre arti. L’energia inarrestabile dell’arte totale futurista diventa anche l’immagine metaforica del sogno dell’uomo contemporaneo: quello di diventare una macchina bestiale, ferino e macchinale. L’homme en voie de mécanization (Carrouge), l’uomo in via di meccanizzazione è veloce, efficace, infaticabile, potente come una macchina. È violento, amorale e spietato come un animale. Ma è soprattutto eterno e per sempre giovane, come un dio.
Bibliografia
CARROUGES, M., 1975, Bachelor machines. Directions for use; in The bachelor machine, Rizzoli, New York.
MARINETTI, F. T., 1915, Il teatro futurista sintetico, in Teoria e invenzione futurista (1968), I Meridiani, Mondadori.
MARINETTI, F. T., 1922, Gli Indomabili, in Teoria e invenzione futurista (1968), I Meridiani, Mondadori.
MARINETTI, F. T., 1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e invenzione futurista (1968), I Meridiani, Mondadori.Linee di velocità
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “Elasticità“, 1912
L’energia efferata che l’avanguardia futurista sente fremere nell’evento storico della guerra è la vibrazione essenziale che ne anima la produzione artistica. La guerra come intensificazione della vita, è infatti la scena potente e orrenda delle mutilazioni, degli assemblaggi e delle ibridazioni fra corpo umano e costruzione macchinica. Per questa ragione essa è il luogo in cui il Futurismo vede profilarsi la possibilità di realizzare il sogno dell’uomo meccanico: ferino come una bestia e onnipotente come una divinità. Il mito di fondazione del vitalismo futurista è una “mitologia delle macchine” che coinvolge un certo culto di Dioniso ma declinato nella sua diatesi contemporanea: un baccanale orgiastico del corpo vivo umano in via di meccanizzazione, animato dall’istinto delle forze naturali.
La contaminazione umano-macchinico si caratterizza in una forma di relazione erotica che ha a che fare con una estrema violenza. Uno degli argomenti principali dell’estetica futurista è che la potenza delle macchine è essenzialmente erotica: ciò che rende attraente la sfera del macchinico è, per la pulsione contemporanea del primo Novecento, la sua capacità di sancire la distruzione definitiva dei valori metafisici tradizionali e di istituire l’avvento di una nuova “religione della fisica”. La materia fisica è investita della carica sessuale delle forze naturali e della vitalità animale. Secondo lo storico dell’arte Peter Gorsen, nella contemporaneità solo le macchine e le cose possono essere considerate libere, non gli umani: “La macchina, nonché parti meccaniche come leve, piani inclinati, viti, cunei, cilindri, bielle, ecc. erano destinate a trasformarsi in metafore di uso frequente in un periodo in cui si assisteva all’emergere di un nuovo tipo di uomo sincronizzato con i suoi strumenti di produzione. … Quando non poteva più essere umanizzata, la macchina fu eroicizzata e demonizzata. E poiché il fatto della macchina come causa della prevalente sovrapproduzione sociale era oscurato, assumeva allora un aspetto individuale, sempre più sinistro, mistico e feticista. … la mitologizzazione della macchina ha subito una escalation” (Gorsen, The humiliating machine escalade of a new myth, 131-132). Il filosofo e poeta Günter Anders descrive poi il mito meccanico e questa connessione erotica come “culto dionisiaco industriale”: in esso l’idea del corpo erotico è quella di un corpo ibrido, fatto di parti meccaniche e umane assemblate assieme e dotato di una forza selvaggia. L’antico demone naturale è trasportato in una nuova forma di divinità: la macchina. Nelle parole dello scrittore e critico francese Michel Carrouge: “Il mana mitico si è trasferito dall’antico regno della natura (umano, animale, vegetale, minerale) al regno meccanico” (Carrouge, Bachelor machines, 42).
Una più attenta osservazione dell’estetica dell’arte contemporanea, a partire dal Futurismo in poi, esige di osservare in profondità le caratteristiche del mito moderno della macchina e la sua costellazione concettuale. L’uomo contemporaneo non si è liberato dalla potente e antica forza del mito. Lo scrittore francese Marc le Bot illustra che il mito è in verità un sistema chiuso, governato dalle leggi nietzscheane dell’eterno ritorno e che funziona perciò on modo “meccanico”: cioè stabilisce e mantiene il suo potere plasmatore attraverso la ripetizione automatica di sé stesso e impedisce in questo modo alla Storia del mondo di procedere. Se il mito ha allora una natura ontologicamente meccanica, il mito dell’uomo contemporaneo è un nuovo mito inteso come “esplosione del racconto mitico comunitario, unita allo scoppio della guerra e alla ‘folie de machines’ (follia delle macchine), esso scioglie tutte le strutture e si apre su una forma di delirio: quello della morte o della felice vertigine” (Le Bot, The myth of the machine, 177). La poetica del Futurismo riesce a legare questi due aspetti incarnandoli nella sua arte: la violenza della guerra moderna, e la sua peculiare capacità macchinica di far morire, è una felice vertigine di energia. Il delirio orgasmico e dionisiaco della guerra nel mondo delle macchine è l’effervescenza sotterranea, il basso continuo da cui emerge il Futurismo.
Il concetto che forse più di tutti riesce ad esprimere il particolare rapporto fra uomo e macchina in questa mitologia dell’epoca contemporanea è quello di “macchina celibe”, coniato da Michel Carrouge riflettendo sulle opere del pittore Marcel Duchamp e dello scrittore Franz Kafka. La macchina celibe è cosí chiamata perché non procrea, non crea l’altro da sé, ma resta bloccata nel suo improduttivo e inutile movimento automatico. Inoltre “la macchina celibe più elementare è perciò formata dall’intersezione di due insiemi, cioè un assemblaggio di antropologico e meccanico” (Carrouge, Le machine célibataires, 158). La macchina celibe è una macchina di morte che funziona anche come immagine sessuale e raffigurazione del Tempo: nella “macchina celibe” lavora un genere di sessualitá che implica una certa “morte del tempo”. Non è per caso che la macchina celibe, stando sulla soglia fra umano e inumano, sia stata considerata, soprattutto nel contesto dell’arte contemporanea, come una macchina da guerra e come macchina di tortura: “la tragica solitudine dell’essere metà-uomo e metà-artificiale si mostra nella macchina celibe, che personifica la peculiare angoscia dell’uomo moderno” (Carrouge, Le machine célibataires, 8). La macchina celibe è una memoria archetipica e primordiale dell’uomo contemporaneo e “le sue rappresentazioni meccaniche in dipinti e nella letteratura fantascientifica sono diventate le nuove maschere dell’uomo in via di meccanizzazione” (Carrouge, Bachelor machines, 9). La figura dell’uomo meccanico mostra l’immaginario mitologico nel quale l’uomo contemporaneo è catturato. Malgrado l’uomo contemporaneo creda di essersi liberato dall’influenza del mito, esso vi resta invece tributario. In verità, l’apparente assenza del mito nella sua vita o nella cognizione che esso ha della sua conoscenza del mondo, non è altro che un nuovo modo di vivere in uno spazio mitico: “Nonostante le nostre pretese di razionalismo, le nostre idee, i nostri sentimenti, i nostri sogni e i nostri comportamenti sono governati dal grande complesso di immagini … Invece di essere confinati nello spazio dell’irreale, i miti agiscono nell’intero insieme di tutte le nostre attività. … Queste attività sono segretamente governate da un’immensa rete di miti. Insolite o banali, le loro costellazioni di immagini governano nel mondo moderno. … l’invariante fondamentale del mito delle macchine celibi, è la distanza o differenza tra la macchina e la solitudine umana. … ci sono molte metamorfosi delle macchine celibi quando vengono lanciate in una serie di diverse prospettive: sessuale, penale, criminale, patologica, artistica, teatrale. Per il suo sistema di immagine, il mito è una macchina mentale che serve a catturare, trasformare e comunicare i movimenti dello spirito” (Carrouge, Bachelor machines, 12-13).
Il concetto di “macchina celibe” è essenziale alla riflessione sul Futurismo, proprio perché in essa si intravede la struttura metaforica che allaccia una stretta relazione fra il mito, l’essere umano, il meccanismo, il tempo, la violenza, il terrore, ma anche l’erotismo e i due lati dell’idolatria che sono la religione e l’ateismo. Una caratteristica molto importante della macchina celibe è la sua capacità di innescare una relazione di potere che inverte l’ordine dell’autorità: la macchina trasforma l’uomo da creatore in servitore di essa. La macchina diventa un idolo divino a cui l’uomo rivolge la sua venerazione e cura, desiderando di fondersi con essa e rendendo perpetuo il meccanismo terribile della macchina, in un ingranaggio che sfocia della distruzione e, alla fine, nell’autodistruzione. Nella macchina celibe, le componenti religiose ed erotiche sono inseparabili. Le invarianti che Carrouge riconosce come cruciali in ogni dispositivo di macchina celibe sono: l’inserimento concreto della macchina nel mondo degli uomini, il potere degli automatismi sociali, animali e psico-fisio-logici, la morte, l’interruzione del tempo, l’impossibilità di futuro che resta avvolto in un eterno istante presente. Le macchine celibi potrebbero anche essere considerate delle immagini mentali prodotte dalle parole o dai tratti: vale a dire, macchine letterarie o pittoriche.
Il mito della macchina celibe lavora nelle viscere del Futurismo italiano prendendo la forma del “mito fondante della velocità” da cui dovrà scaturire il nuovo uomo meccanico, figlio della rivoluzione industriale e capace di fondersi alla macchina mistica, mitica e bestiale della contemporaneità, di diventare esso stesso la macchina spettacolare che riunisce tutti gli elementi del mito moderno. La violenza del Novecento e soprattutto l’evento della Prima Guerra Mondiale, hanno rappresentato un vero e proprio campo di esperienza del potere letale delle macchine e, allo stesso tempo, del fascino del loro meccanismo e dei loro orrendi effetti di morte. In questo quadro, l’estetica del futurismo costruisce un mito erotico e trionfale della macchina, basato sulla sua essenza violenta e aggressiva oltre che sulla sua vitalità animale: “Il mito della macchina celibe significa, in realtà, l’impero simultaneo del meccanismo e del mondo del terrore. La cosa più straordinaria, da questo punto di vista, è che le terrificanti macchine inventate da Duchamp e Kafka, sono state erette accanto ai loro fantastici profili alle soglie dell’era contemporanea, l’era della barbarie scientifica e della barbarie dei campi di concentramento. Costituiscono il mito principale in cui è inscritta la quadrupla tragedia del nostro tempo: il nodo gordiano dell’interferenza fra meccanizzazione, terrore, erotismo, religione e anti-religione” (Carrouge, Bachelor machines, 24).
Bibliografia
CARROUGES, M., 1954, Le machines célibataires, Chêne.
CARROUGES, M., 1975, Bachelor machines. Directions for use; in The bachelor machine, Rizzoli, New York.
GORSEN, P., 1975, The humiliating machine escalade of a new myth, in The bachelor machines, Rizzoli, New York.
LE BOT, M., 1975, The Myth of the machine, in The bachelor machines, Rizzoli, New York.
Immagine della puntata: Michail Larinov, “Raggismo rosso“, 1913
Il Futurismo è senza dubbio una delle avanguardie più controverse e poliedriche della storia dei movimenti artistici, a causa di quella che si potrebbe definire la sua estrema versatilità sia sul piano estetico che su quello politico. Come è noto, il Futurismo è stato molto spesso considerato una specie di appendice estetica della propaganda fascista in Italia, anche perché molti dei suoi esponenti, primo fra tutti il suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti, hanno appoggiato posizioni politiche interventiste nella prima guerra mondiale, vicine all’ideologia fascista che si stava formando in Italia negli stessi anni in cui sorgeva il Futurismo. Si compie spesso l’errore di assimilare interamente un movimento artistico (o una riflessione filosofica) ad una idea politica specifica e storicamente determinata, ma questo non è mai un buon affare. Non solo perché si rischia di non comprendere la complessità strutturale del movimento artistico, filosofico o politico in questione, ma anche perché l’assenza di comprensione che deriva da ogni atto di identificazione semplicistica è sempre pericoloso e anche “grossolano” sia dal punto di vista estetico che etico. Il binomio Futurismo-Fascismo infatti è internamente complicato da diverse essenziali e contraddizioni, e perciò le spinte del condannare o del fare l’apologia a priori del Futurismo sono entrambe cattive consigliere.
Il Futurismo italiano attraversa diverse fasi nella sua storia e all’interno di ogni fase persistono scissioni profonde, sul piano estetico e politico. La prima ondata futurista, che va indicativamente dal 1909 al 1928, è caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista e concorda solo in parte con la spinta guerrafondaia e fanatica del fascismo, restando invece vicina a posizioni essenzialmente anarchiche fino a toccare un ultra-anarchismo. Nella sua seconda ondata, dal 1928 al 1939, invece, il Futurismo abbraccia gli stilemi della propaganda fascista e, sul piano estetico, si lascia ispirare dall’arte surrealista. La terza e ultima fase, successiva al ’39, sembra non essere troppo coinvolta in vicissitudini politiche. Sono inoltre numerosi i “futuristi di sinistra” che sebbene meno noti nel panorama culturale italiano, si collocavano su posizioni vicine all’anarchismo e al bolscevismo.
Non si può considerare casuale che la “filiazione” internazionale più importante prodotta dal futurismo italiano, sia stato il Futurismo russo. In un ambiente politico e culturale completamente diverso da quello italiano, si produce quindi un futurismo differente. Il Manifesto del Futurismo scritto da Marinetti e pubblicato nel 1909 sul quotidiano francese Le Figaro appare in Russia due anni dopo, nel 1911, tradotto da Natal’ja Gončarova e Michail Larionov. È del 1913 il Primo Congresso Futurista russo, a cui aderiscono molte personalità di rilievo come il poeta Vladimir Majakovskij. In materia di produzione artistica, l’estetica del futurismo russo prende due direzioni diverse: quella del cubofuturismo e quella del “raggismo”. Il cubo-futurismo combina le forme del cubismo con la rappresentazione futurista del dinamismo, della velocità e dell’irrequietezza della vita urbana moderna. Il “raggismo” invece vuole creare un nuovo “astrattismo” della forma, coniugando le istanze del futurismo con quelle del Neo-primitivismo (che fondeva elementi post-impressionisti con icone dell’arte tradizionale russa). Il raggismo lavora allo studio della rifrazione e diffrazione dei raggi di luce che colpiscono gli oggetti, coglie gli effetti dell’inglobamento dei colori nello spettro. Nel manifesto del raggismo si legge: “Lo stile raggista mira alle forme spaziali, che possono derivare dall’intersecazione dei raggi emessi dai vari oggetti, quali vengono rilevate dalla volontà dell’artista. Il raggio viene convenzionalmente raffigurato in piano con una linea di colore”. Fra gli esponenti cruciali di questo stile ci sono i due pittori che hanno portato in Russia il manifesto di Marinetti, cioè Natal’ja Gončarova e Michail Larionov. I futuristi russi condividono con quelli italiani la fascinazione per il dinamismo della vita moderna, l’energia delle forze storiche che scuotono l’Europa del primo novecento e la guerra al passatismo, e dichiarano con fermezza che Pushkin e Dostoevskij, le icone del romanticismo russo, dovrebbero essere “gettati in mare dal piroscafo della modernità”. Idea, questa, molto vicina a quella del futurismo italiano: “tale opera di sgombramento il futurismo la compié con una temperatura così alta, che l’assieme di tutti i suoi tentativi di realizzazione costituì di per sé stesso una notevole opera d’arte: l’ultima e la più folgorante espressione del romanticismo, che in esso si brucia e gloriosamente chiude la sua lunghissima vita” (Bontempelli, L’avventura novecentista). Tuttavia la maggior parte dei futuristi russi non riconoscono alcuna autorità a Marinetti e lo ostacolano durante il suo viaggio in Russia nel 1914. Il movimento futurista russo infatti concorda con l’animo bellicoso del futurismo italiano, ma al bellicismo russo si accompagna un’idea di pace e di libertà, sia dell’artista che del mondo, che molto velocemente sfocia nell’adesione all’estrema sinistra russa e al bolscevismo, perciò a una prospettiva politica opposta rispetto a quella a cui arriva la maggior parte dei futuristi italiani.
L’avanguardia futurista mostra allora la sua complessità in queste incredibili variazioni estetiche ma soprattutto politiche. Nell’anno successivo alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia, avvenuta nel 1917, Marinetti nel 1918 scrive Il Manifesto del partito futurista italiano, dove chiaramente mostra fra le essenziali priorità della sua agenda politica: il suffragio universale (esteso quindi anche alle donne), la nazionalizzazione di acque e miniere, la tassazione progressiva, la progressiva abolizione dell’esercito, la parificazione del lavoro femminile a quello maschile e soprattutto la libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione e di stampa. Nel 1919, poi, in Democrazia Futurista, Marinetti sottolinea: “Gli anarchici si accontentano di assalire i rami politici, giuridici ed economici dell’albero sociale mentre noi vogliamo assai di più … Di quest’albero infatti vogliamo strappare e abbruciare le più profonde radici, quelle piantate nel cervello dell’uomo e che si chiamano: desiderio del minimo sforzo, quietismo civile, amore dell’antico e del vecchio, di ciò che è corrotto e ammalato, orrore del nuovo, disprezzo della gioventù, venerazione del tempo, degli anni accumulati, dei morti, dei moribondi, bisogno istintivo di ordine chiuso, di legge, di catene, di ostacoli, di questure, di morale, di pudore, paura di una libertà totale” (Marinetti, Democrazia Futurista, 416-417). Perciò se “il fascismo delle origini era di fatto impregnato di spirito futurista, del quale però, di lì a poco, non dovevano restare che gli aspetti più esterni e superficiali” (De Maria, Introduzione, 57), il futurismo resta animato da un profondo spirito anarchico, che sembra distanziarsi dal fascismo tanto quanto dal comunismo sovietico, come si legge anche nell’opuscolo di Marinetti Al di là del Comunismo, del 1920. A complicare ulteriormente il campo semantico del futurismo su scala internazionale, arriva anche la declinazione del futurismo in Francia, promosso da Guillaume Apollinaire e da Valentine de Saint Point. Il Futurismo francese assomiglia più ad una tendenza estetica che non a un movimento, e sembra essere privo di spinta politica.
Il futurismo italiano ha dunque tante facce, sia al suo interno, che nelle sue irradiazioni internazionali. È più una spinta a veder germogliare le risorse dinamiche della Storia, che una vera e propria ideologia politica o artistica. Ed è precisamente questo che lo consacra come “avanguardia”: il gettarsi in avanti, il salto nel vuoto e nell’ignoto del mondo a venire. Infatti “il ‘feticismo della macchina’ non esaurisce il significato del futurismo, il quale si fonda piuttosto, secondo le parole stesse di Marinetti, ‘sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche’ e delle ‘diverse forme di comunicazione, di trasporto e di informazione’ che esercitano una ‘decisiva influenza’ sulla psiche umana” (De Maria, Introduzione, 35). In tutte le sue diatesi internazionali, il Futurismo ha a che fare con una volontà rivoluzionaria, un bisogno di changer la vie, di cambiamento dell’esistenza individuale e collettiva; è la sfida di Prometeo contro gli Dei, l’affronto del fuoco titanico che offre agli uomini la vita, contro l’ordine olimpico, dispotico, fisso e chiuso: “Potremmo dire che il futurismo … si situa in quella tendenza della cultura romantica che Michel Carrouge ha denominato, nel libro omonimo, “mistica del superuomo”. Dopo la ‘morte di Dio’ – la cui fenomenologia Carrouge traccia in Hegel e, naturalmente, in Nietzsche –, assistiamo nella filosofia, e parallelamente nella letteratura, al sorgere di una nuova fede e di una nuova religione che l’autore denomina ‘ateismo prometeico’. Alla morte di Dio succede la deificazione dell’uomo e ‘la nascita del superuomo chiamato a raccogliere l’eredità della potenza divina’. … L’ispirazione generale della poesia prometeica, al di là delle varietà e delle oscillazioni individuali, ‘tende a pervenire, benché si tratti di aspirazioni contraddittorie, alla negazione della creazione e dal dominio dell’uomo sulla natura, alla negazione dell’immortalità e della morte … all’affermazione delle tenebre della ‘morte di Dio’ e alla luce universale del ‘wonderland’ (Carrouge, La mystique du surhomme, 168). L’afflato prometeico pervade di fatto tutta l’ideologia futurista” (De Maria, Introduzione, 37-38).
Bibliografia
BONTEMPELLI, M., 1938, L’avventura novecentista, Vallecchi, Firenze.
CARROUGES, M., 1948, La mystique du surhomme, Gallimard, Paris.
DE MARIA, L., 1968, Introduzione a F.T. Marinetti, Teoria e Invenzione Futurista, Mondadori, Milano.
MARINETTI, F.T., 1918, Manifesto del Partito Futurista Italiano, in Teoria e Invenzione Futurista, Mondadori, Milano.
MARINETTI, F.T., 1919, Democrazia Futurista, in Teoria e Invenzione Futurista, Mondadori, Milano.
MARINETTI, F.T., 1920, Al di là del Comunismo, in Teoria e Invenzione Futurista, Mondadori, Milano.
Immagine della puntata: Carlo Carrà, “Simultaneità“, 1912
L’avanguardia futurista, che in piena spinta prometeica si lancia nell’impresa titanica di rubare il fuoco agli Dei dell’arte classica italiana per donare agli uomini una nuova “estetica del superuomo”, trova sicuramente una delle sue espressioni più emblematiche nel campo della pittura. Nel 1909, sulla scia del Manifesto del Futurismo scritto da Marinetti, gli esponenti più in vista del movimento futurista in pittura scrivono il loro personale manifesto, che viene pubblicato sulla rivista Poesia nel 1910. In questo Manifesto dei pittori futuristi, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini espongono la poetica essenziale della pittura futurista che ruota essenzialmente attorno a due fuochi: da un lato distruggere il culto del passato, dall’altro sbaragliare l’ossessione per l’antico e l’imitazione di esso, per muoversi verso l’originalità assoluta di un’arte che non teme più di essere considerata “impopolare” ma che, al contrario, vuole scandalizzare e stravolgere tutti i canoni formali tradizionali.
L’appello lanciato dai firmatari del manifesto è un grido di ribellione che chiama a raccolta l’attenzione di tutti gli artisti italiani: “Agli artisti giovani d’Italia! … Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro. Noi siamo nauseati dalla pigrizia vile che dal Cinquecento in poi fa vivere i nostri artisti d’un incessante sfruttamento delle glorie antiche. Per gli altri popoli, l’Italia è ancora una terra di morti, un’immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L’Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggiscono ormai officine innumerevoli: nel paese dell’estetica tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità. È vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda. Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici … ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto. E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur…? Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d’arte, dichiariamo guerra, risolutamente, a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che, pur camuffandosi d’una veste di falsa modernità, rimangono invischiati nella tradizione, nell’accademismo, e soprattutto in una ripugnante pigrizia cerebrale. … Insorgiamo, insomma, contro la superficialità, la banalità e la facilità bottegaia e cialtrona che rendono profondamente spregevole la maggior parte degli artisti rispettati di ogni regione d’Italia. … Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!… Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura! … Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari!” (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 1909-1910).
Sempre nel 1910, gli stessi artisti firmatari del primo manifesto, ne redigono anche un altro. Si tratta questa volta del Manifesto tecnico della pittura futurista dove compaiono, nel dettaglio e con chiarezza illuminante, le coordinate cruciali del nuovo modo di dipingere promosso dai futuristi. L’abolizione della prospettiva tradizionale e il moltiplicarsi dei punti di vista per esprimere l’interazione dinamica fra il soggetto del quadro e lo spazio circostante sono i comandamenti che ne costituiscono il fondamento. “Oggi, con questo secondo manifesto, ci stacchiamo risolutamente da ogni considerazione relativa e assurgiamo alle più alte espressioni dell’assoluto pittorico. La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne. Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna farla; bisogna farne l’atmosfera. Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri, ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva, che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi x? Innumerevoli sono gli esempi che danno una sanzione positiva alle nostre affermazioni. Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro, tre: stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri corpi entrano nei divani su cui sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano. La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro. … Noi vogliamo rientrare nella vita … La nostra nuova coscienza non ci fa più considerare l’uomo come centro della vita universale… Per concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno bisogna che l’anima ridiventi pura … Allora tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli! Come si può veder roseo in un volto umano, mentre la nostra vita é innegabilmente sdoppiata nel nottambulismo? … il volto umano è giallo, è rosso, è verde, è azzurro, è violetto. … Le nostre sensazioni non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali. I vostri occhi abituati alla penombra si apriranno alle più radiose visioni di luce. Le ombre che dipingeremo saranno più luminose delle luci dei nostri predecessori, e i nostri quadri, a confronto di quelli immagazzinati nei musei, saranno il giorno più fulgido contrapposto alla notte più cupa. Questo naturalmente ci porta a concludere che non può sussistere pittura senza divisionismo. Il divisionismo, tuttavia, non è nel nostro concetto un mezzo tecnico che si possa metodicamente imparare ad applicare. Il divisionismo, nel pittore moderno, deve essere un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale. … l’Arte che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza. Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i Primitivi di una sensibilità completamente trasformata. Fuori dall’atmosfera in cui viviamo noi, non vi sono che tenebre. Noi Futuristi ascendiamo verso le vette più eccelse e più radiose, e ci proclamiamo Signori della Luce, poiché già beviamo alle vive fonti del Sole” (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Manifesto tecnico della pittura futurista, 1910).
La pittura futurista vuole quindi raccogliere, concertare e lasciar esplodere la polifonia della vita moderna in tutta la sua iridescente e violenta velocità. Vuole far risuonare il dinamismo universale rendendo la vibrazione del movimento che trapela dalla scena del mondo direttamente nel quadro, come sensazione dinamica. Vuole lasciare spazio alla distruzione della materialità dei corpi, attraverso il moto e la luce. Non c’è solo lo spirito ribelle di Prometeo che anima l’estetica titanica futurista. C’è anche quello sognante e ambizioso di Icaro, che per uscire dal labirinto del canone tradizionale tenta le vie del cielo, e vola dritto verso il Sole. Nello spazio sottile fra pulsione terrestre e aspirazione aerea, il futurismo svela al mondo il “meraviglioso moderno” del primo novecento.
Bibliografia
BOCCIONI, CARRÀ, RUSSOLO, BALLA, SEVERINI, 1909, Manifesto dei pittori futuristi, Milano.
BOCCIONI, CARRÀ, RUSSOLO, BALLA, SEVERINI, 1910, Manifesto tecnico della pittura futurista, Milano.
BONTEMPELLI, M., 1938, L’avventura novecentista, Vallecchi, Firenze.
CARROUGES, M., 1948, La mystique du surhomme, Gallimard, Paris.
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
Immagine della puntata: Tullio Crali, “In tuffo sulla città“, 1939
L’ispirazione spirituale dell’avanguardia futurista si può collocare fra due icone della mitologia greca: da un lato il titano Prometeo e la sua coraggiosa sfida lanciata contro gli Dei dell’Olimpo ai quali ruba il fuoco per donarlo agli uomini, dall’altro la figura di Icaro che tenta di sfuggire al labirinto del Minotauro spiccando il volo verso il cielo, con ali fatte di cera costruite dal padre Dedalo. Da una parte, dunque, il futurismo strappa agli Dei della cultura tradizionale il fuoco sacro dell’arte e lo incarna nelle viscere del mondo e della vita umana. Dall’altro, quasi come spinta simultanea ma di segno opposto, il futurismo si leva verso il fuoco del sole in una folle impresa del volo, dell’incendio e della caduta. In entrambi i casi, i futuristi vogliono misurarsi con l’elemento impalpabile, primordiale e distruttivo del fuoco. L’esperimento estetico dell’“Aeropittura” è senza dubbio lo spazio di espressione artistica in cui più di tutti aleggia lo spirito di Icaro e la sua impresa leggendaria e tragica, riletto dai futuristi in chiave moderna.
Il “meraviglioso moderno” prodotto dalla Rivoluzione Industriale porta con sé una energia tecnologica senza precedenti e apre la nuova ‘era delle macchine’ che il futurismo raffigura in tutta la sua potenza e violenza. L’entusiasmo fanatico dei futuristi di fronte al macchinico, raggiunge allora il suo apice al cospetto dell’invenzione, nel 1903, della “macchina volante” (l’aeroplano) in cui convergono il dinamismo della macchina e l’elegante, veloce e fluida azione del volo. L’Aeropittura è forse la massima espressione della seconda generazione del futurismo italiano, quella che va dal 1929 ai primi anni ’40 del novecento, e che perciò attraversa pienamente l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. Il soggetto principale di questa declinazione pittorica del futurismo sono appunto gli aeroplani e i panorami aerei. Il realismo e l’astrazione toccano qui le loro combinazioni più incredibili nel tentativo di orchestrare i volumi e le forme terrestri con quelle aeree colte in prospettiva di volo. Nel 1929 viene redatto il Manifesto dell’Aeropittura futurista, da parte di Marinetti e di pittori fra i quali Giacomo Balla, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Gerardo Dottori e Benedetta Cappa. Questo manifesto offre il più completo compendio sulla concezione formale che l’avanguardia futurista sviluppa in merito alla poetica del volo in pittura. Sorvolare il mondo con decolli, planate, picchiate, virate, rotazioni e piroette è il nuovo punto di vista della pittura futurista e anche l’angolo d’osservazione in cui viene posto lo spettatore, che diventa anch’esso, protagonista del volo:
“Noi futuristi dichiariamo che: 1. Le prospettive mutevoli del volo costituiscono una realtà assolutamente nuova e che nulla ha di comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri; 2. Gli elementi di questa nuova realtà non hanno nessun punto fermo e sono costruiti dalla stessa mobilità perenne; 3. Il pittore non può osservare e dipingere che partecipando alla loro stessa velocità; 4. Dipingere dall’alto questa nuova realtà impone un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto; 5. Tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore in volo: schiacciate, artificiali, provvisorie, appena cadute dal cielo; 6. Tutte le parti del paesaggio accentuano agli occhi del pittore in volo i loro caratteri di: folto, sparso, elegante, grandioso; 7. ogni Aeropittura contiene simultaneamente il doppio movimento dell’aeroplano e della mano del pittore che muove la matita, pennello o diffusore; 8. Il quadro o complesso plastico di Aeropittura deve essere policentrico; 9. Si giungerà presto a una nuova spiritualità plastica extra-terrestre.
Nelle velocità terrestri (cavallo, automobile, treno) le piante, le case, ecc., avventandosi contro di noi, girando rapidissime le vicine, meno rapide le lontane, formano una ruota dinamica nella cornice dell’orizzonte di montagne, mare, colline, laghi, che si sposta anch’essa, ma così lentamente da sembrare ferma. Oltre questa cornice immobile esiste per l’occhio nostro anche la continuità orizzontale del piano su cui si corre.
Nelle velocità aeree invece mancano questa continuità e questa cornice panoramica. L’aeroplano, che plana, si tuffa, s’impenna, crea un ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dinamizzato inoltre dalla coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi di visione-sensazione. Il tempo e lo spazio vengono polverizzati dalla fulminea constatazione che la terra corre velocissima sotto l’aeroplano immobile. Nelle virate, si chiudono le pieghe della visione-ventaglio (toni verdi + toni marroni + toni celesti diafani dell’atmosfera) per lanciarsi verticali contro la verticale formata dall’apparecchio e dalla terra. Questa visione-ventaglio si riapre in forma di X in picchiata mantenendo come unica base l’incrocio dei due angoli. Il decollare crea un inseguirsi di V allargantisi. Il Colosseo visto da 3000 metri da un aviatore, che plana a spirale, muta di forma e di dimensione ad ogni istante e ingrossa successivamente tutte le facce del suo volume nel mostrarle.
In linea di volo, ad una quota qualsiasi, ma costante, se trascuriamo ciò che si vede sotto di noi, vediamo apparire davanti un panorama A, che si allarga man mano proporzionalmente alla nostra velocità, più oltre un piccolo panorama B che ingrandisce mentre sorvoliamo il panorama A, finché scorgiamo un panorama C che si allarga man a mano che scompaiono A lontanissimo e B ora sorvolato. Nelle virate, il punto di vista è sempre sulla traiettoria dell’apparecchio, ma coincide successivamente con tutti i punti della curva compiuta, seguendo tutte le posizioni dell’apparecchio stesso. In una virata a destra, i frammenti panoramici diventano circolari e corrono verso sinistra moltiplicandosi e stringendosi, mentre diminuiscono di numero nello spaziarsi a destra, secondo la maggiore o minore inclinazione dell’apparecchio. Dopo avere studiato le prospettive aeree che si offrono di fronte all’aviatore, studiamo gli innumerevoli effetti laterali. Questi hanno tutti un movimento di rotazione. Così l’apparecchio avanza come un’asta di ferro doppiamente dentata, ingranandosi da una parte e dall’altra coi denti di due ruote che girano in senso opposto a quello dell’apparecchio, e i cui centri sono in tutti i punti dell’orizzonte. Queste visioni rotanti si susseguono, si amalgamano, compenetrando la somma degli spettacoli frontali.
Noi futuristi dichiariamo che il principio delle prospettive aeree e conseguentemente il principio dell’Aeropittura è un’incessante e graduata moltiplicazione di forme e colori con dei crescendo e diminuendo elasticissimi che si intensificano o si spaziano partorendo nuove gradazioni di forme e colori. Con qualsiasi traiettoria metodo o condizione di volo, i frammenti panoramici sono ognuno la continuazione dell’altro, legati tutti da un misterioso e fatale bisogno di sovrapporre le loro forme e i loro colori, pur conservando fra loro una perfetta e prodigiosa armonia. Questa armonia è determinata dalla stessa continuità del volo. Si delineano così i caratteri dominanti dell’Aeropittura che, mediante una libertà assoluta di fantasia e un ossessionante desiderio di abbracciare la molteplicità dinamica con la più indispensabile delle sintesi, fisserà l’immenso dramma visionario e sensibile del volo” (Manifesto dell’Aeropittura, 198-201).
Partendo da queste idee formali, i “trans-volatori” futuristi hanno inventato molteplici prospettive del volo e le hanno rese in pittura con le più diverse estetiche dello stile e con le più originali angolazioni d’osservazione, a volte utilizzando quella che in gergo cinematografico è conosciuta come “soggettiva”, ovvero l’inquadratura che offre il punto di vista del protagonista; qui è quello del pilota dell’aereo che guarda il mondo dalla carlinga, come accade nel famoso dipinto di Tullio Crali, In tuffo sulla città, del 1939. La “religione morale della velocità” (Salaris) che sta al fondamento dell’ossessione futurista per il macchinico e per il simultaneo, assume con l’Aeropittura la leggerezza delle evoluzioni aeree, e diventa una forma di idealismo cosmico votato a catturare la sostanza volatile della materia sovra-terrestre.
Bibliografia
REBESCHINI, C., 2017, Aeropittura: la seduzione del volo (catalogo), Milano, Skira.
MARINETTI, BALLA, DEPERO, PRAMPOLINI, DOTTORI, CAPPA, FILLIA, SOMENZI, TATO, Manifesto dell’Aeropittura. (1939), in 1968, Teoria e invenzione futurista, I Meridiani, Milano, Mondadori.
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
SALARIS, C., 1985, Aero…: futurismo e mito del volo, Roma, Le parole gelate.
Immagine della puntata: Anton Giulio Bragaglia, “Il fumatore“, 1922
L’anima volatile, leggera, impalpabile e “fumosa” dei gesti e delle cose, attrae l’avanguardia futurista verso una nuova sperimentazione artistica che interessa la fotografia. Fra il 1911 e il 1913 nasce il “Fotodinamismo”. Si tratta di un modo di scattare e sviluppare fotografie che intende produrre immagini profondamente emotive, grazie alla resa del movimento dinamico dell’essenza spirituale dell’essere umano, che si esteriorizza nel processo del movimento fisico. In altre parole, nel fotodinamismo cattura il demone interno dell’azione umana e lo fa diventare improvvisamente visibile, attraverso il riverbero e la consistenza ‘filamentosa’ dell’immagine fotografata.
Gli esperimenti fotografici dei fratelli Bragaglia, Anton Giulio e Arturo, rappresentano la più eloquente forma di fotodinamismo futurista. Lasciandosi ispirare dall’esaltazione per il sublime dinamico espressa da Marinetti nel Manifesto del futurismo del 1909 , il fotodinamismo abbraccia anche il concetto radicalmente rivoluzionario di spazio e tempo elaborato da Henri Bergson. Il filosofo francese aveva infatti sviluppato una teoria della durata che è stata estremamente influente per i movimenti d’avanguardia del primo Novecento. Bergson ipotizzava che un oggetto o una figura espone la sua essenza soltanto se vista all’interno di un flusso “dinamico”. Questa postura di dinamismo era in grado di riunire tutti gli oggetti nel tempo e nello spazio. Il concetto bergsoniano di ‘quarta dimensione’, così come la sua presentazione al Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna nel 1911, contribuirono all’opera dei pittori futuristi più o meno nello stesso periodo degli esperimenti dei fratelli Bragaglia con la fotografia.
Anton Giulio Bragaglia, il pioniere del fotodinamismo, si interessa, come scrive Sarah Carey, al “singolo gesto, spesso impulsivo, alla traiettoria dello spostamento di un corpo nello spazio. In contrasto con il tradizionale rapporto tra realismo e fotografia dell’Ottocento, Bragaglia ha voluto rinunciare alla riproduzione precisa, meccanica e glaciale della vita, per cogliere la spontaneità della vita e registrare in modo irrealistico la realtà, rispondendo al rigor mortis che prima era stato associato al mezzo fotografico: la tradizione italiana di fotografare le opere d’arte e i monumenti architettonici. Il fotodinamismo di Bragaglia ha infatti superato l’oneroso problema temporale della fotografia (che una fotografia ferma il tempo e rende quel momento “morto”) giocando con esposizioni multiple e lunghe che hanno dato vita e vitalità all’immagine. Ha finalmente permesso al mezzo di uscire dall’impasse tra le esigenze del pittorialismo e quelle del realismo” (Carey 222).
Nel 1913 Bragaglia pubblica un testo dal titolo Fotodinamismo futurista, dove espone la sua teoria estetica dell’immagine e il suo modo di intendere il ‘dinamismo’: “È necessario principalmente distinguere tra dinamismo e dinamismo. V’è il dinamismo effettivo, realistico, degli oggetti in evoluzione di moto reale — che, per maggior precisione, dovrebbe esser definito movimentismo — e v’è il dinamismo virtuale degli oggetti in statica del quale s’interessa la Pittura Futurista. Il nostro è movimentismo, tanto che, se non si fosse voluto notare il dinamismo interiore della Fotodinamica, questa avrebbe dovuto dirsi Foto-movimentistica o Foto-cinematica. Il concetto della Fotodinamica mi fu ispirato dal Manifesto Tecnico dei Pittori Futuristi. … Noi vogliamo realizzare una rivoluzione, per un progresso, nella fotografia: e questo per purificarla, nobilitarla ed elevarla veramente ad arte, poiché io affermo che con i mezzi della meccanica fotografica si possa fare dell’arte solo se si supera la pedestre riproduzione fotografica del vero immobile o fermato in atteggiamento di istantanea, così che il risultato fotografico, riuscendo ad acquistare, per altri mezzi e ricerche, anche la espressione e la vibrazione della vita viva, e distogliendosi dalla propria oscena e brutale realisticità statica venga ad essere non più la solita fotografia, ma una cosa molto più elevata che noi abbiamo detto Fotodinamica” (Bragaglia 13).
La fotografia di Anton Giulio Bragaglia vuole varcare i confini dell’arte e non fermarsi alla documentazione “meccanica” del movimento. Il suo approccio attinge direttamente alla vitalità della vita ed esplora “alcuni elementi della psiche umana andando oltre la semplice cattura del movimento” (Carey 223). Una delle immagini più famose di Bragaglia è “Il fumatore”: in essa non è solo l’azione del fumare ad essere fotografata, ma è in qualche modo la contaminazione fra il movimento del fumatore e le spire del fumo in uno spazio di intreccio in cui il dinamismo dell’uno si riverbera in quello dell’altro. Il fratello minore, Arturo Bragaglia, continuerà la ricerca sperimentale del fotodinamismo fino al 1930, esplorando proprio quelle che sono state definite le “fotografie degli spiriti”. Si tratta di scatti che rivelano aspetti segreti della realtà, fantasmi della psiche umana che si nascondevano dietro le apparenze del mondo visibile. Fotografare gli spettri dell’essere umano permette ai fotografi futuristi di concentrarsi sulle forze del subconscio in modo pre-surrealista.
Dopo la pubblicazione del testo di Bragaglia, in un primo momento molti importanti esponenti del futurismo prendono le distanze da Bragaglia e dalla sua arte, affermando che “Data l’ignoranza generale in materia d’arte, e per evitare equivoci, noi Pittori futuristi dichiariamo che tutto ciò che si riferisce alla fotodinamica concerne esclusivamente delle innovazioni nel campo della fotografia. Tali ricerche puramente fotografiche non hanno assolutamente nulla a che fare col Dinamismo plastico da noi inventato, né con qualsiasi ricerca dinamica nel dominio della pittura, della scultura e dell’architettura.” Come spiega con chiarezza Sarah Carey: “L’idea di movimento di Boccioni non era meccanica e Bragaglia ha dovuto invece affidarsi all’apparato meccanico della macchina da presa per creare dinamismo visivo. Allo stesso modo, il concetto futurista di movimento non era statico, ma doveva rappresentare una continuità spaziale e temporale che (almeno secondo i pittori futuristi) non era possibile con mezzi fotografici. L’eventuale e completa scomunica dei fratelli Bragaglia da parte di Boccioni e di altri era dovuta, come sempre, a una combinazione ancora più complicata di diversi fattori. In primo luogo, la fotografia non si adattava alla loro già affermata estetica programmatica, che in un certo senso era molto tradizionale in quanto si basava sulla pittura, la scultura e l’architettura. In secondo luogo, sia la fotografia che il cinema erano considerati mezzi di comunicazione freddi. Congelavano lo slancio vitale, riportando solo riproduzioni meccaniche prive di vita. La fotografia era ancora considerata un linguaggio a sé stante, ma trasformando la realtà in un segno immutabile, diventava qualcosa di oggettivamente diverso dal “vissuto”. Per Marinetti e Boccioni in particolare, la fotografia non era solo un linguaggio intrinsecamente statico e necromorfo, ma era incapace di tradurre la complessità e l’effimero stato d’essere della vita. Infine, per i futuristi l’artista doveva essere l’unico interlocutore tra l’esperienza estetica e il mondo reale, concetto non conciliabile con la necessaria dipendenza della fotografia dal funzionamento meccanico dell’obiettivo della macchina fotografica. Per poter assimilare la fotografia al movimento, i futuristi hanno dovuto “riscaldare” il mezzo dal suo stato di congelamento e di meccanizzazione, attraverso una completa riconsiderazione dell’efficacia del mezzo come strumento” (Carey 225).
È allora solo nel 1930 che Marinetti e Tato riconoscono alla fotografia un posto nell’arte futurista e a Bragaglia la sua rivoluzione artistica tramite il mezzo fotografico. Il loro Manifesto della fotografia futurista sottolinea quanto attraverso le possibilità della fotografia, “gli aspetti drammatici e ultraterreni degli oggetti potevano produrre l’illusione di una realtà superiore” (Carey 228). Infatti, “La fotografia di un paesaggio, quella di una persona o di un gruppo di persone, ottenute con un’armonia, una minuzia di particolari ed una tipicità tali da far dire: ‘Sembra un quadro!’ è cosa per noi assolutamente superata. Dopo il fotodinamismo o fotografia del movimento creato da Anton Giulio Bragaglia in collaborazione con suo fratello Arturo … occorre realizzare queste nuove possibilità fotografiche: 1° Il dramma di oggetti immobili e mobili; e la mescolanza drammatica di oggetti mobili e immobili; 2° il dramma delle ombre degli oggetti contrastanti e isolate dagli oggetti stessi; 3° il dramma di oggetti umanizzati, pietrificati, cristallizzati o vegetalizzati mediante camuffamenti e luci speciali; 4° la spettralizzazione di alcune parti del corpo umano o animale isolate o ricongiunte alogicamente; 5° la fusione di prospettive aeree, marine, terrestri; 6° la fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso; 7° le inclinazioni immobili e mobili degli oggetti o dei corpi umani ed animali; 8° la mobile o immobile sospensione degli oggetti ed il loro stare in equilibrio; 9° le drammatiche sproporzioni degli oggetti mobili ed immobili; 10° le amorose o violente compenetrazioni di oggetti mobili o immobili; 11° la sovrapposizione trasparente o semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fantasmi semi-astratti con simultaneità di ricordo sogno; 12° l’ingigantimento straripante di una cosa minuscola quasi invisibile in un paesaggio; 13° l’interpretazione tragica o satirica dell’attività mediante un simbolismo di oggetti camuffati; 14° la composizione di paesaggi assolutamente extraterrestri, astrali o medianici mediante spessori, elasticità, profondità torbide, limpide trasparenze, valori algebrici o geometrici senza nulla di umano nè di vegetale nè di geologico; 15° la composizione organica dei diversi stati d’animo di una persona mediante l’espressione intensificata delle più tipiche parti del suo corpo; 16° l’arte fotografica degli oggetti camuffati, intesa a sviluppare l’arte dei camuffamenti di guerra che ha lo scopo di illudere gli osservatori aerei. Tutte queste ricerche hanno lo scopo di far sempre più sconfinare la scienza fotografica nell’arte pura e favorirne automaticamente lo sviluppo nel campo della fisica, della chimica e della guerra” (Marinetti 195-197). Ecco la passione futurista per il fotodinamismo e il suo modo di mostrare il “dramma degli spiriti”.
Bibliografia
BRAGAGLIA, A. G., 1970, Fotodinamismo futurista, Torino, Einaudi.
CAREY, S., 2010, Futurism’s Photography: From fotodinamismo to fotomontaggio, Carte Italiane (Vol. 6).
MARINETTI, F. T., TATO, 1930, La fotografia futurista, in Teoria e invenzione futurista (1968), I Meridiani, Mondadori.
VITTORI, M., 2009, L’obbiettivo futurista. Fotodinamismo e fotografia (a cura di), Novecento, Latina.
Immagine della puntata: Benedetta Cappa, “Velocità in motoscafo“, 1923
La presenza provocatoria delle donne nel futurismo resta un caso aperto. A partire dagli anni ’70, i modi e le ragioni dell’implicazione delle donne nell’avanguardia futurista sono diventati argomenti di grande interesse e di accesa discussione, perché relativi ad un tema profondamente controverso. Il futurismo italiano è la prima avanguardia europea a contare fra le sue fila artiste donne di grande rilievo e originalità che hanno segnato molti campi della sperimentazione futurista: dalla pittura alla letteratura, dal teatro alla danza e alla fotografia. Non accade per caso che i primi studi sulle donne nel futurismo siano sbocciati proprio negli stessi anni in cui il movimento femminista italiano irrompeva nel panorama politico, con la sua vitale forza rivoluzionaria e il suo impatto di innovazione sulla cultura e sulla società italiana. Da un certo punto di vista, le donne futuriste del primo novecento rappresentano le pioniere di uno svecchiamento della cultura e dell’arte italiana in direzione anti-maschilista. Indipendenti e autonome nelle loro sperimentazioni artistiche, fermamente determinate nella loro volontà di affermare un punto di vista nuovo sull’estetica dell’avanguardia, e anche libere nei propri costumi di vita, le donne futuriste lanciano al mondo dell’arte una sfida che è anche politica.
Ma il rapporto fra le donne futuriste e la coscienza femminista, che albeggiava già nel primo novecento, resta complesso e per quanto possa sembrare paradossale in molti casi diventa contrastivo. Alle futuriste non interessava infatti la lotta femminista in direzione di una parità che fosse sancita per statuto, di un diritto alla uguaglianza politica. Le donne del futurismo reclamavano l’apertura totale al loro intervento nella teoria e nella pratica artistica. Una delle figure-chiave dell’ala femminile del futurismo è Benedetta Cappa, compagna e poi moglie di Marinetti, che mantiene una autonomia creativa di artista totale in diversi ambiti, ed è pittrice dotata di notevole capacità. Come altre esponenti donne del futurismo, Benedetta Cappa pone il corpo al centro della sperimentazione espressiva. Sul palcoscenico teatrale si incontra Maria Ricotti, interprete del Théâtre de la Pantomime Futuriste, teatro che lei anche dirige, insieme al suo fondatore Enrico Prampolini. Per la fotografia spicca Wanda Wulz, la triestina che riprende gli studi sul fotodinamismo dei fratelli Bragaglia e ne rilancia l’estetica mettendo, al centro dell’attenzione, il volto e il corpo.
Il Futurismo è stato spesso accusato di essere un movimento misogino. Questo assunto non rende giustizia alla complessità dell’idea che i futuristi hanno delle donne, e neppure all’idea che le futuriste donne hanno riguardo all’avanguardia futurista stessa. Il “disprezzo della donna” proclamato da Marinetti nel manifesto del 1909 dal titolo Uccidiamo il chiaro di luna!, va letto in verità in chiave “anti-sentimentalista” e “anti-passatista”. Esso non si scaglia contro la donna, ma contro l’immagine femminile imposta dalla tradizione: “non contro la donna … ma contro il concetto di donna creato da noi egoisti, gelosi, ossessionati e in particolare il tipo di donna fatale, snob, sognatrice, nostalgica, stupidamente e culturalmente complicata che riempie e legge i romanzi di D’Annunzio e contro la donna tira-e-molla, ipocrita, bigotta, mezzi abbandoni, che legge e riempie i romanzi di Fogazzaro” (Marinetti, Come si seducono le donne). I futuristi vogliono rovesciare la tradizionale narrazione del femminile per impossessarsi in modo assolutamente estremo dei valori del moderno e della velocità ma anche dell’eroismo e dell’agonismo.
Secondo la futurista Maria Goretti, al futurismo si impone necessario essere misogino perché esso deve combattere contro l’ideale romantico della donna, combattere la donna “ogni qualvolta la donna rappresenta la nostalgia che incatena, la dolcezza che rende vili, la critica che arresta l’entusiasmo, la lentezza che ferma il dinamismo della corsa, l’incomprensione della bellezza di una lotta, la paura fanciullesca del sangue che scorre” (Goretti 28). Combattendo contro l’idea della donna per secoli accarezzata dalla tradizione, “I futuristi aspirano insomma ad una donna non più tenera e fragile ma forte e coraggiosa; una donna che sia capace di adattarsi alla vita moderna e affrontarla come sfida armata di volontà e gioioso ottimismo, una donna che sia a tutti gli effetti futurista. Le donne nel Futurismo costituiscono un ridotto ma significativo insieme che venne attratto dal movimento proprio per il suo spirito rinnovatore e la sua fortissima tensione di svecchiamento. Con idee e contenuti letterari distinti ed eterogenei, che ad oggi rendono al Futurismo una fisionomia ancor più fascinosamente controversa, le donne futuriste si lasciarono coinvolgere dal sentimento anti-passatista e di questo approfittarono per potersi esprimere artisticamente in libertà e persino diffondere le loro opinioni sul ruolo della donna nella società (Ciavola 28).
Ma c’è anche da considerare l’altra faccia della luna futurista. Infatti, “Al tempo stesso, all’interno del nuovo scenario trasformato dai processi tecnologici, i futuristi includono la donna per strumentalizzarla e trasformarla in componente erotica in funzione di un ordine che rimane comunque dichiaratamente fallocentrico. L’erotismo è inteso come ‘coefficente imprescindibile del superuomo futurista in ordine proprio a quell’aggressività gagliarda e ottimistica che soprattutto lo contraddistingue’ (Guerricchio 35). Se l’elemento femminile è presente nello spazio moderno è perciò reificato nel corpo lucente e metallico delle macchine e dell’automobile. L’identificazione della donna con la macchina si rende esplicita in L’uomo moltiplicato e il regno della macchina in cui il nero e lucente metallo delle locomotive è paragonato al corpo femminile e la donna è reificata, trasformata in una brillante e voluttuosa macchina in movimento sotto ‘la carezza lubrificante’ (De Maria 255) (Ciavola 29).
Le donne sono dunque, simultaneamente, oggetto macchinico del desiderio futurista, e soggetto vitale e crudelmente animale dell’avanguardia futurista. Vestali generatici di eroi a venire, ma anche Amazzoni violente, fondatrici del mondo nuovo. La futurista Valentine De Saint-Point scrive a Parigi, il 25 marzo 1912, il Manifesto della donna futurista, che era una risposta al manifesto di fondazione del movimento scritto da Marinetti tre anni prima; “L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è superiore nè inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo. Il complesso dell’umanità non fu mai altro che il terreno di coltura dal quale balzarono i genii e gli eroi dei due sessi. Ma, nell’umanità come nella natura, vi sono momenti più propizi alla fioritura. Nelle estati dell’umanità, quando il terreno è arso di sole, i genii e gli eroi abbondano. Noi siamo all’inizio di una primavera; ci manca ancora una profusione di sole, cioè molto sangue sparso. … È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta soltanto di femminilità e di mascolinità. Ogni superuomo, ogni eroe, per quanto sia epico, ogni genio per quanto sia possente, è l’espressione prodigiosa di una razza e di un’epoca solo perchè è composto, ad un tempo, di elementi femminili e di elementi maschili, di femminilità e di mascolinità: cioè un essere completo. … Avviene delle collettività e dei momenti dell’umanità come degli individui. I periodi fecondi, in cui dal terreno di coltura in ebullizione balzano fuori in maggior numero genii ed eroi, sono periodi ricchi di mascolinità e di femminilità. … Ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità. Ecco perchè il Futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione. Per ridare una certa virilità alle nostre razze intorpidite nella femminilità, bisogna trascinarle alla virilità, fino alla brutalità. Ma bisogna imporre a tutti, agli uomini e alle donne ugualmente deboli, un dogma nuovo di energia, per arrivare ad un periodo di umanità superiore. Ogni donna deve possedere non soltanto delle virtù femminili, ma delle qualità virili; altrimenti è una femmina. E l’uomo che ha soltanto la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto. Ma, nel periodo di femminilità in cui viviamo, solo l’esagerazione contraria è salutare. Ed è il bruto che si deve proporre a modello. … Non più donne, piovre dei focolari, dai tentacoli che esauriscono il sangue degli uomini e anemizzano i fanciulli; donne bestialmente amorose, che distruggono nel Desiderio anche la sua forza di rinnovamento! Le donne sono le Erinni, le Amazzoni …le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi… per istinto, la donna non è saggia, non è pacifista, non è buona. Poiché ella manca totalmente di misura, ella diventa, in un periodo sonnolento della umanità, troppo saggia, troppo pacifista, troppo buona. Il suo intuito, la sua immaginazione, sono ad un tempo la sua forza e la sua debolezza. Ella è l’individualità della folla: fa corteo agli eroi, o, se questi mancano, sostiene gl’imbecilli…. Ecco perché nessuna rivoluzione deve rimanerle estranea; ecco perchè invece di disprezzare la donna, bisogna rivolgersi a lei. È la conquista più feconda che si possa fare; è la più entusiasta, che, alla sua volta, moltiplicherà le reclute. Ma si lasci da parte il Femminismo. Il Femminismo è un errore politico. Il Femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. Non bisogna dare alla donna nessuno dei diritti reclamati dai Femminismo. L’accordar loro questi diritti non produrrebbe alcuno dei disordini augurati dai futuristi, ma determinerebbe, anzi, un eccesso d’ordine. L’attribuire dei doveri alla donna equivale a farle perdere tutta la sua potenza feconda. I ragionamenti e le deduzioni del Femminismo non distruggeranno la sua fatalità primordiale; non possono far altro che falsarla e costringerla a manifestarsi attraverso deviazioni che conducono ai peggiori errori. Già da secoli si cozza contro l’istinto della donna, null’altro si pregia di lei che la grazia e la tenerezza…Essa si è lasciata domare. Ma gridatele una parola nuova, lanciate un grido di guerra, e con gioia, cavalcando di nuovo il suo istinto, essa vi precederà verso conquiste insperate… Donne, ridiventate sublimemente ingiuste, come tutte le forze della natura! Liberate da ogni controllo, ritrovato il vostro istinto, voi riprenderete posto fra gli Elementi, opponendo la fatalità alla cosciente volontà dell’uomo…. La lussuria è una forza, perchè distrugge i deboli, eccita i forti a spendere energie, dunque al loro rinnovamento. Ogni popolo eroico è sensuale: la donna è per esso il più esaltante trofeo…Donne, per troppo tempo sviate fra le morali e i pregiudizi, ritornate al vostro istinto sublime: alla violenza e alla crudeltà… Invece di ridurre l’uomo alla servitù degli esecrabili bisogni sentimentali, spingete i vostri figliuoli e i vostri uomini a superarsi. Siete voi che li fate. Voi avete su loro ogni potere. All’ umanità voi dovete degli eroi. Dateglieli!”.
Femministe per essenza ma anti-femministe per vocazione? La questione è aperta. Sicuramente provocatorie, forse contraddittorie ma senz’altro rivoluzionarie, le donne futuriste restano la zona cieca dell’intero movimento, il luogo della sua massima complessità, il crinale più affilato e scivoloso della sua poetica e della sua politica.
Bibliografia
CIAVOLA, L., 2012, L’altra metà futurista: la donna nel futurismo, le donne del futurismo, in “African Journal on line”, Vol. 25, n. 2.
DE MARIA, L., 1968, in Teoria e Invenzione futurista, Introduzione, Milano, Mondadori.
DE SAINT-POINT, V., 1912, Manifesto della Donna Futurista, Parigi.
GORETTI, M., 1947, La donna e il Futurismo, Verona, La Scaligera.
GUERRICCHIO, R. 1976, Il modello di donna futurista, in “Donne e politica” n. 35-36, a cura della direzione femminile della direzione del PCI.
MARINETTI, F.T., 1917, Come si seducono le donne, Firenze, Italia Futurista.
Immagine della puntata: Carlo Carrà, “Ritmi di oggetti“, 1911
Del Futurismo si conoscono principalmente le opere d’arte pittorica. In verità, però, la prima fonte di sperimentazione futurista accade in campo letterario. Filippo Tommaso Marinetti, fondatore dell’intero movimento, è forse l’esponente più innovativo di questa avanguardia soprattutto per aver inventato la tecnica letteraria delle “parole in libertà”, anche detta paroliberismo, che prevedeva la distruzione totale del canone sintattico tradizionale. L’avanguardia storica futurista in materia letteraria si costruisce infatti in uno spazio di critica aperta, di feroce opposizione e di agonismo dichiarato contro le tecniche retoriche, lo stile letterario e la stessa sensibilità estetica promosse dal romanzo realista ottocentesco. Nelle nuove dimensioni tecniche e stilistiche aperte in letteratura dalle opere di Marinetti sono ben riscontrabili tutte le componenti estetiche e antropologiche generali dell’avanguardia storica e in particolare del futurismo: cioè l’attivismo, l’antagonismo, l’agonismo, il dinamismo, l’antipassatismo e il nichilismo. Ma la cifra fondamentale e distintiva del futurismo in letteratura emerge nella riconfigurazione del soggetto narrante ottocentesco. Si tratta della diversa posizione del soggetto della narrazione e nella narrazione, di una nuova natura ontologica del soggetto narrante e di un nuovo modo di intendere la vocazione desiderante di questo narrare.
Nel 1912, Marinetti dichiara a chiare lettere, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, quanto sia necessario “Distruggere nella letteratura, l’“io”, cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e a una saggezza spaventose, non offre più assolutamente interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura e sostituirlo finalmente con la materia. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia” (Marinetti, 1912, 50). Il superamento nichilistico del soggetto umano, narrato e narrante che sia, prende forma in Marinetti come de-umanizzazione della scrittura, che deve invece essere messa al servizio dell’“ossessione lirica della materia”. Nel testo dal titolo Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà, del 1913, Marinetti scrive: “io vi dichiaro che il lirismo è la facoltà rarissima di inebriarsi della vita e di inebriarla di noi stessi… La facoltà di colorare il mondo coi colori specialissimi del nostro io mutevole. Ora supponete che un amico vostro dotato di questa facoltà lirica si trovi in una zona di vita intensa (rivoluzione, guerra, naufragio, terremoto, ecc.) e venga, immediatamente dopo, a narrarvi le impressioni avute. Sapete cosa farà istintivamente questo vostro amico lirico e commosso?… Egli comincerà col distruggere brutalmente la sintassi nel parlare. Non perderà tempo a costruire i periodi. S’infischierà della punteggiatura e della aggettivazione. Disprezzerà cesellature e sfumature di linguaggio, e in fretta vi getterà affannosamente nei nervi le sue sensazioni visive, auditive, olfattive, secondo la loro corrente incalzante. L’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Manate di parole essenziali senza alcun ordine convenzionale. Unica preoccupazione del narratore, rendere tutte le vibrazioni del suo io. … Per immaginazione senza fili io intendo la libertà assoluta delle immagini o analogie, espresse con parole slegate e senza fili conduttori sintattici e senza alcuna punteggiatura. L’immaginazione senza fili, e le parole in libertà c’introducono nell’essenza della materia. Con lo scoprire nuove analogie fra cose lontane e apparentemente opposte noi le valuteremo sempre più intimamente. Invece di umanizzare animali, vegetali, minerali (sistema sorpassato) noi potremo animalizzare, vegetalizzare, mineralizzare, elettrizzare o liquefare lo stile, facendolo vivere della stessa vita della materia… Noi tendiamo a sopprimere ovunque l’aggettivo qualificativo, perché presuppone un arresto dell’intuizione, una definizione troppo minuta del sostantivo. … vogliamo un lirismo rapidissimo, brutale e immediato, un lirismo che a tutti i nostri predecessori deve apparire antipoetico, un lirismo telegrafico, che non abbia assolutamente alcun sapore di libro, e il più possibile, sapore di vita. Da ciò, l’introduzione coraggiosa di accordi onomatopeici per rendere tutti i suoni e i rumori anche i più cacofonici della vita moderna. … Ho ideato inoltre il lirismo multilineo col quale riesco ad ottenere quella simultaneità lirica che ossessiona anche i pittori futuristi, lirismo multilineo, mediante il quale io sono convinto di ottenere le più complicate simultaneità liriche. Il poeta lancerà su parecchie linee parallele parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica…. Oggi noi non vogliamo più che l’ebrietà lirica disponga sintatticamente le parole prima di lanciarle fuori coi fiati da noi inventati, ed abbiamo le parole in libertà. Inoltre la nostra ebrietà lirica deve liberamente deformare, riplasmare le parole, tagliandole, allungandone e rinforzandone il centro o le estremità, aumentando o diminuendo il numero delle vocali e delle consonanti. Avremo così la nuova ortografia che io chiamo libera espressiva. Questa deformazione istintiva delle parole corrisponde alla nostra tendenza naturale verso l’onomatopea. Poco importa se la parola deformata diventa equivoca. Essa si sposerà con gli accordi onomatopeici, o riassunti di rumori, e ci permetterà di giungere presto all’accordo onomatopeico psichico, espressione sonora ma astratta di una emozione o di un pensiero puro. (Marinetti, 1913, 70-80). Nel testo Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, del 1914, Marinetti ribadisce: “Dal caos delle nuove sensibilità contraddittorie, nasce oggi una nuova bellezza che, noi futuristi, sostituiremo alla prima, e che io chiamo Splendore geometrico e meccanico. … Noi distruggiamo sistematicamente l’Io letterario perché si sparpagli nella vibrazione universale, e giungiamo ad esprimere l’infinitamente piccolo e le agitazioni molecolari. … Vengono abolite le antiche proporzioni (romantiche, sentimentali e cristiane) del racconto, secondo le quali un ferito in battaglia aveva una importanza esageratissima in confronto degli strumenti di distruzione, delle posizioni strategiche e delle condizioni atmosferiche. … Ho più volte dimostrato come il sostantivo, sciupato dai molteplici contatti o dal peso degli aggettivi parnassiani e decadenti, riacquisti il suo assoluto valore e la sua forza espressiva quando viene denudato e isolato. Fra i sostantivi nudi, io distinguo il sostantivo elementare e il sostantivo sintesi-moto (o nodo di sostantivi). Questa distinzione non assoluta risulta da intuizioni quasi inafferrabili. Secondo una analogia elastica e comprensiva, vedo ogni sostantivo come un vagone o come una cinghia messa in moto dal verbo all’infinito. … Il verbo all’infinito è il moto stesso del nuovo lirismo, avendo la scorrevolezza di una ruota di treno, o di un’elica d’aeroplano. … Mediante uno o più aggettivi isolati tra parentesi o messi a fianco delle parole in libertà dietro una riga perpendicolare (in chiave), si possono dare le diverse atmosfere del racconto e i toni che lo governano. Questi aggettivi-atmosfera o aggettivi-tono non possono essere sostituiti da sostantivi. … Malgrado le più abili deformazioni, il periodo sintattico conteneva sempre una prospettiva scientifica e fotografica assolutamente contraria ai diritti della emozione. Con le parole in libertà questa prospettiva viene distrutta e si giunge naturalmente alla multiforme prospettiva emozionale. … Con le parole in libertà, noi formiamo talvolta delle tavole sinottiche di valori lirici che ci permettono di seguire leggendo contemporaneamente molte correnti di sensazioni incrociate o parallele. Queste tavole sinottiche non devono essere uno scopo, ma un mezzo, per aumentare la forza espressiva del lirismo. … L’ortografia e la tipografia libere espressive servono inoltre ad esprimere la mimica facciale e la gesticolazione del narratore. … Il nostro amore crescente per la materia, la volontà di penetrarla e di conoscere le sue vibrazioni, la simpatia fisica che ci lega ai motori, ci spingono all’uso dell’onomatopea… Il rumore essendo il risultato dello strofinamento o dell’urto di solidi, liquidi o gas in velocità, l’onomatopea, che riproduce il rumore, è necessariamente uno degli elementi più dinamici della poesia.” (Marinetti, 1914, 98- 106). Queste linee guida di carattere estetico e formale sono rispecchiate prima di tutto nell’opera tutta onomatopeica dal titolo Zang Tumb Tumb, che Marinetti scrive sempre nel 1914 e che può essere considerato come il “monumento storico del paroliberismo” (De Maria, 76).
Si tratta di uno spazio di estrema innovazione letteraria, e si direbbe anzi decisamente anti-letteraria, in cui Marinetti produce, attraverso la tecnica del montaggio parolibero, il risultato annunciato nelle dichiarazioni di intenti dei manifesti tecnici scritti nei due anni precedenti; “Zang Tumb Tumb rappresenta il momento più acceso della misologia futurista, il culmine della ‘rottura’, nel quale l’intransigenza viene portata alle estreme conseguenze. La rispondenza tra poetica e poesia è qui perfetta: la precettistica dei manifesti trova, di fatto, piena applicazione, se non nel risultato finale (il che sarebbe praticamente impossibile) almeno nelle intenzioni formali.” (De Maria 77). Zang tumb tumb è quindi il manifesto poetico applicato del futurismo, che segue direttamente i manifesti della dichiarazione teorica della poetica futurista. Per usare un’espressione di Julius Evola, l’opera di Marinetti è “un tuffo brutale a titolo di purificazione”. Nel manifesto tecnico Marinetti aveva dichiarato che bisognava “distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono”, “abolire anche la punteggiatura, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti” e creare una gradazione e una catena di analogie libere e sempre più vaste; “l’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia…bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine” (Marinetti, 1912, 46-48). Una delle condizioni essenziali per uno stile sonoro, orchestrale, privo di sintassi e di punteggiatura, ma anche visivo e visionario, lasciato quindi alla libertà assoluta del fluire delle analogie in una “immaginazione senza fili” è quella della scomparsa del soggetto narrante. Se nel manifesto poetico di Zang Tumb Tumb prevale un “soggettivismo orgiastico” (Evola) che si esalta di fronte allo spettacolo della guerra intesa proprio come festa e come espressione massima di vitalità, questo genere di soggettivismo è però essenzialmente “senza soggetto” narrante. In altri termini, il soggetto narrante è disseminato e automatizzato nel tripudio molteplice dell’orgia di guerra del soggetto corale, in una orchestrazione in cui il soggetto si pluralizza nella modalità della meccanica orgiastica. La componente macchinica del nesso fra guerra, violenza, velocità, e la cifra marinettiana della de-umanizzazione in letteratura – dell’elisione dell’umano come soggetto narrato e come soggetto narrante – raggiunge in quest’opera di Marinetti un apice di tipo erotico. L’oggetto del desiderio è, per Marinetti, la creazione di una macchina violenta della letteratura in cui non è l’essere umano a costruire il centro del senso, ma la macchina. Il soggetto umano scompare ibridandosi con il meccanismo formale e figurale delle analogie, fondendosi con l’automatismo del poema: “Nel poema, il primitivo, il brutale, l’orgiastico, si sposano – congiungendo due modi d’essere dell’avanguardia di solito separati – all’esigenza di rigore e d’astrazione geometrica” (De Maria 77). La tendenza al sincretismo delle arti, la pratica di contaminazione fra registri artistici di diversa natura è spesso in gioco nelle avanguardie, come espediente di moltiplicazione espressiva dell’opera. In Marinetti essa assume il senso di un’ambizione poliespressiva assordante e caotica, che ha la forza pervasiva di un montaggio cinematico che fa risuonare il forsennato movimento della violenza, la festa della guerra: “non bisogna dimenticare che ambizione fondamentale del paroliberismo era giungere alla ‘poliespressione simultanea del mondo’, dunque, conseguentemente, alla fusione delle arti. Nel manifesto La cinematografia futurista (11 settembre 1916), dopo aver asserito che col cinematografo ‘si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono tutte le più moderne ricerche artistiche’, Marinetti conclude: ‘Metteremo in moto le parole in libertá che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale’. Zang Tumb Tumb si pone in quest’ambito di ricerca: l’aspetto visivo coesiste all’aspetto acustico e rumoristico che si estrinseca nell’ortografia libera espressiva e nelle onomatopee, e che necessita, per rivelarsi pienamente, della particolare declamazione futurista” (De Maria 78). L’esperimento letterario di Zang Tumb Tumb sembra funzionare infatti addirittura meglio se tradotto in forma radiofonica o teatrale, cioè in quei luoghi dell’espressione artistica in cui la tecnica letteraria del paroliberismo di Marinetti può mostrarsi nella sua suprema forza sonora e visiva.
Bibliografia
DE MARIA, L., 1968, Introduzione a F.T. Marinetti, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori.
EVOLA, J., Arte astratta, 1920, “Collection Dada”, Maglioni & Strini.
HOWLETT, J., MENGHAM, R., 1994, The violent muse. Violence and the artistic imagination in Europe 1910-1939, Manchester University Press.
MARINETTI, F.T.,1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
MARINETTI, F.T.,1913, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertá, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
MARINETTI, F.T.,1914, Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
MARINETTI, F.T.,1914, Zang Tumb Tumb, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
SITI, W., 1975, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi.
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “La città che sale“, 1910
Il romanzo dal titolo Gli Indomabili, che Marinetti scrive nel 1922, offre un esempio di paroliberismo molto diverso da quello manifestato qualche anno prima, in Zang Tumb Tumb. Questo romanzo entra infatti in una relazione complessa con l’estetica delle “parole in libertá” proprio perché si trova costretto a negoziare con le forme del romanzo tradizionale; “Gli Indomabili rappresentano la vetta suprema di Marinetti prosatore ‘tradizionale’: da consumato allegorista, egli dispiega in quest’opera il virtuosismo di uno stile maturo, non per nulla passato attraverso le più varie esperienze, uno stile a più registri, ora diretto, immediato, ora letterario e prezioso; ora intinto di sprezzature brutali, ora soffuso di musicali delicatezze” (De Maria, 86).
Rendere nell’arte la ‘mistica della materia’, annunciata da Marinetti nei vari manifesti come fine estetico supremo del futurismo, si traduce in quest’opera nella massima aspirazione all’ibridazione fra l’umano, l’animale e la macchina. Questa direzione della ‘modernolatria’ futurista era stata da Marinetti già lanciata nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, nel 1912: “Poeti futuristi! Mediante l’intuizione, vinceremo l’ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori. Dopo il regno animale, ecco iniziarsi al regno meccanico. Con la conoscenza e l’amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea di morte, e quindi dalla morte stessa” (Marinetti, 1912, 54). L’uomo meccanico non può morire, perde la sua umanità nell’istante stesso in cui si disumanizza in una immortalità conferitagli dall’incorporazione nella macchina. In questa idea mitica della macchina, l’uomo che guadagna l’immortalità acquista uno statuto divino e ferino, vicino cioé al Dio e alla bestia. Da Ecce homo quale è, l’uomo meccanico-animalesco dichiara guerra al Dio degli uomini avvolti ancora nel loro sepolcro di carne. L’estetica marinettiana della macchina si configura pertanto, simultaneamente, in uno slancio di teofagia e di teomachia insieme, cioè simultaneamente di divorazione del divino e di guerra contro di esso. Essa è animata dalla nietzschana “morte di dio” che prende la forma di una sfida contro Dio e di una assunzione della potenza divina in forza della vittoria sull’idea di morte. Ma alla morte di Dio non può che conseguire la morte dell’uomo e pertanto del soggetto umano narrato e narrante. Questo romanzo di Marinetti fornisce una peculiare mitologia della macchina, mette in scena un epico ed infernale ingranaggio di violenza e si aggancia, in un assemblaggio mostruoso, con il sogno futurista della fusione bestiale fra uomo, animale e macchina. Si tratta di un romanzo fantascientifico, di una “favola profetica religiosa e sociale”, come la definiva l’artista futurista Benedetta Cappa, anche moglie di Marinetti.
L’autore illustra un universo narrativo in cui differenti figure di umani-macchina e di umani-animale ingaggiano una violenta battaglia. La trama si sviluppa in luoghi differenti (la Fossa, la Duna, l’Oasi, il Fiume, la Città) e ad ognuno di questi siti corrisponde una differente tipologia di ibridazione: i Cartacei, i Fluviali, gli Indomabili e i Carcerieri con le rispettive diverse strutture sociali di appartenenza. I mondi paralleli sono legati fra loro da rapporti di potere e mostrano, nel loro funzionamento, la co-implicazione fra dinamismo, violenza, velocità meccanica e epica della guerra. Il potere dello stile letterario di Marinetti assomiglia a quello di una “macchina da guerra”. Marinetti dichiara qui guerra al romanzo ottocentesco attraverso una “macchina letteraria” in cui la guerra diventa il modello estetico e dinamico dello sviluppo e dello stile narrativo. Inoltre, la potenzialità del paroliberismo si mostra qui attraverso un meccanismo letterario il cui dispositivo tecnico è quello dell’assemblaggio di analogie figurali violente, nel ritmo e nella tonalità, in una contaminazione sincretistica fra diversi generi letterari. Il paroliberismo non è qui semplicemente uno stile o una mescolanza di stili, ma un dispositivo ritmico che riproduce, come in uno specchio, il carnage della violenza che strazia il mondo del XX secolo: “Come definire Gli Indomabili? É un libro parolibero. Nudo, crudo, sintetico. Simultaneo, policromo, polirumorista. Vasto, violento, dinamico. Le parole in libertà orchestrano i colori, i rumori e i suoni, combinando i materiali delle lingue e dei dialetti, le formole aritmetiche e geometriche, i segni musicali, le parole vecchie, deformate o nuove, i gridi degli animali, delle belve e dei motori” (Marinetti, 1922, 921-922). Quando Marinetti descrive, ad esempio, la “citta dei Cartacei”, il dispositivo ritmico futurista diventa evidente proprio nell’accelerazione con cui parole e immagini si susseguono e nella rete di analogie che riproducono molteplici combinazioni e ibridazioni fra umano, macchina e animale: “Pozzi di evaporazione spaccati foruncoli di vulcani. Vampe di altiforni. Colpi di magli. Girandole di scintille. Gabbie di ferro che imprigionano fiamme scimmiesche dal culo rosso-viola. Voluttuosissimi massi di metallo incandescente. Colare, rimescolarsi, correre, piroettare, su e giù. Verticalmente, orizzontalmente. Come un pendolo. Alternativamente come una montagna, come un topo, come una tartaruga, come una piuma” (Marinetti, 1922, 986). La città stessa dei Cartacei è un “grande ingranaggio” che funziona grazie a creature umane ibridate con ruote meccaniche: “Su quelle fantastiche ruote perpendicolari, la vôlta si slanciava con impeto lirico per formare un’ogiva appassionata che saliva saliva perdendosi nel buio. Inoltrandosi sempre più nell’atmosfera qua e là torturata di luci e tutta intrecciatissima di fumi, gli Indomabili compresero che quelle ruote giranti si ingranavano una all’altra, velocissime. Intorno ad ogni ruota, formicolava il travaglio minuzioso di una complicata orologeria di piccole ruote ognuna delle quali aveva l’altezza di un uomo e portava sospeso alla sua manovella uno straccio convulso e nero. Gli Indomabili si fermarono muti, colpiti da stupore. Quegli stracci sembravano affannosi. Erano eseri viventi. Molli, come disossati, trascinati dalla ruota stessa, mentre in realtà partiva da loro la forza rotante. A quando a quando, uno di quegli uomini flosci e serpentini rallentava il suo moto convulso. Lo si sentiva ansimare e gemere di fatica, mentre le ruote intorno, tutte ingranate, rallentavano i loro giri, e la gigantesca ruota perpendicolare, diminuendo anch’essa la sua velocità, rivelava il suo orlo dentato di luminose seghe d’argento. Subito un sibilo trapanava l’atmosfera caldissima – Con forza! Al lavoro! Velocità! Velocità! Guai a chi si ferma! Lavoro o morte! Velocità o morte!” (Marinetti, 1922, 988). La lunga serie onomatopeica di “r” è l’espressione che restituisce al lettore l’effetto sonoro del rumore dell’ingranaggio. A questo proposito il Manifesto tecnico del 1912 non lascia adito a fraintendimenti: “Sorprendere, attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi la respirazione, la sensibilità, e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno. Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia. La materia appartiene al poeta divinatore che saprà liberarsi della sintassi tradizionale. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l’essenza della materia. Le parole liberate dalla punteggiatura irradieranno le une sulle altre, incroceranno i loro diversi magnetismi, secondo il dinamismo interrotto del pensiero. Uno spazio bianco, più o meno lungo indicherà al lettore i riposi o i sonni più o meno lunghi dell’intuizione. La distruzione del periodo tradizionale permetterà al poeta futurista di utilizzare tutte le onomatopee, anche le più cacofoniche, che riproducono gli innumerevoli rumori della materia in movimento” (Marinetti, 1912, 46-54).
Inserendo nella letteratura l’elemento del rumore – sonoro o silente che sia – Marinetti conferma il desiderio bruciante del Futurismo italiano di aprire una nuova idea di uomo contemporaneo: un uomo leggerissimo, velocissimo, elettrico, bestiale, meccanico, non umano. Questo al fine di volare verso un completo rinnovamento della sensibilità umana: l’uomo davvero al passo con le scoperte tecnologiche e con la violenza della Prima Guerra Mondiale, in una parola l’uomo nuovo del XX secolo, è colui che fa del mito della velocità un mantra e della mistica della macchina un culto. La nuova conquista che la letteratura marinettiana auspica è la fusione fra istinto animale e performance meccanica. Precisamente nella distruzione della sintassi, incorporata nello stile marinettiano del paroliberismo, affiora quindi la manifestazione del nuovo senso dell’era contemporanea, del “nuovo moderno della modernità” di cui parla il critico Renato Poggioli. Si tratta del ritmo della vita in tempo di guerra, l’apocalisse della violenza che brucia tutto, la crisi e la frenesia, la convulsione esistenziale e sociale che il Futurismo esalta, partecipando al dinamismo forsennato della sua danza macabra, applaudendola e salutandola nella fiammata di un baccanale letterario sanguinario.
Inoltre è necessario ricordare che “Gli Indomabili sono un’opera fondamentale dell’itinerario artistico di Marinetti: in essa si esprime uno stadio della sua più profonda Weltanschauung” (De Maria, 90), ovvero della sua visione del mondo. In una lettera aperta che Marinetti scrive a Silvio Benco, si legge infatti: “Preciso ora il significato filosofico-simbolico degli Indomabili… Solo la ferocia, la crudeltá, ieri domate oggi coscienti volitive possono guidare l’avvenire. Ma le forze domate un istante si sguinzagliano di nuovo anarchiche, individualistiche, feroci. Ridiventano istinti incoscienti e brutali, criminali che bisogna incatenare. E tutto ritornerebbe alle origini. Ma nell’Umanitá vi è la continuitá della coscienza. Sorge cosí dal libro la sintesi dell’uomo-individuo nel suo sforzo verso la pienezza emotiva che trabocca nella vita cerebrale. La quale talvolta diviene tiranna e sfrutta le forze materiali che già ha cercato di superare. E sorge la sintesi dell’individuo società nel suo sforzo di progresso. Sforzo verso una fratellanza quasi raggiunta, illuminata dalle idee, ma arrestata dall’arsura delle idee stesse che infiammano di nuovo gli elementi densi e opachi. E sorge la sintesi dell’Umanità. Umanitá dolorante nel mistero angoscioso, con tutte le seti mai soddisfatte, tutte le arsure sempre inasprite. Umanità assetata di una verità che abbracci, che dilaghi e accarezzi. Unica verità, unica forza: la Bontà. Bontà assoluta senza relativi, senza spasimi. Bontà dell’anima che si ritrova nell’altra anima e si appaga del ritrovo senza possesso. Ma la bontà non basta alla vitalità umana. L’umanità è dinamica, costruttiva. Nella costruzione crede, vuole la creazione che è il suo avvenire” (Marinetti, 1924, 29-31). In questo discorso così denso, diviso in tre momenti di dispiegamento dello spirito umano, dall’evoluzione quasi hegeliana, “si delinea una vera e propria dialettica della civiltà… Prossimo a riconoscere la verità dell’umanità nell’utopia di un’esistenza pacificata, Marinetti se ne distacca violentemente per paura di ledere l’essenza stessa dell’uomo” (De Maria 87-88). Il futurismo non può dimenticare la sua vocazione polemologica. È il polemos, il dimanismo della guerra, dell’insurrezione, della rivolta a restare, per i futuristi, al centro di ogni vera creazione. Pertanto l’essenza umana stessa, così come la sua destinazione, può essere creativa solo nella dinamicitá di una costruzione radicale che include in sé il suo presupposto distruttivo. L’umanitá è violenta e dinamica, o non é.
Bibliografia
DE MARIA, L., 1968, Introduzione a F.T. Marinetti, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori.
HOWLETT, J., MENGHAM, R., 1994, The violent muse. Violence and the artistic imagination in Europe 1910-1939, Manchester University Press.
MARINETTI, F.T.,1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
MARINETTI, F.T., 1922, Gli Indomabili, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
SANZIN, G., Marinetti e il futurismo, Editore Sanzin, 1924.
SITI, W., 1975, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi.
Immagine della puntata: Gerardo Dottori, “Incendio città“, 1926
Aldo Palazzeschi è uno dei più originali scrittori futuristi. Il Codice di Perelà (1911) è forse il suo romanzo più famoso e in ogni caso l’opera prediletta dall’autore, che la definiva “la mia favola aerea, il punto più elevato della mia fantasia”. La figura protagonista del romanzo, Perelà, è un uomo fatto interamente di fumo. È nato dall’ “utero nero” di un camino in cui è vissuto per trentatré anni, si è formato ed è stato nutrito dalle sue tre anziane madri: Pena, Rete e Lama. Le tre vecchie centenarie, incontrandosi ogni giorno di fronte al camino, parlavano fra loro alimentando la fiamma, da cui usciva un fumo che avrebbe “riempito” il contorno di Perelà, e avrebbe infine preso sembianze umane. Il nome “Perelà” è composto dalle prime tre sillabe dei nomi del trittico materno (Pe-Re-Là). La consistenza fumosa dell’uomo nato dal fuoco fa di lui un personaggio che resta presente solo nell’ineffabilità e fuggevolezza inconsistente del fumo.
A Torlindao, la città immaginaria in cui Perelà si trova ad arrivare, una volta sceso giù dal camino in un filo di fumo, egli trova una società strutturata gerarchicamente alla maniera di quelle europee del 1700 e gestita da una monarchia assoluta. In un primo momento l’uomo di fumo viene ammirato per la sua eccezionalità – la sua leggerezza fisica è metafora dell’innocenza amorale di colui che non appartiene al mondo degli uomini – al punto che il Re della città gli chiede di redigere un codice di legge, la cui mancanza affligge lo Stato da tempo e che solo un Ecce homo come Perelà, che è al di sopra della legge degli uomini e dei loro interessi particolari, può inventare. Ma il codice non verrà completato perché Perelà viene accusato della morte di Alloro, il maggiordomo del Re, che si era suicidato dandosi fuoco nella speranza di tramutarsi anch’egli in un uomo di fumo. Dichiarato dunque pericolosissimo e destabilizzante per il regno, Perelà viene arrestato, processato e condannato a essere imprigionato in un camino buio, da cui alla fine del romanzo fuggirà, tramutandosi in una nuvola.
L’eroe del romanzo di Palazzeschi è chiaramente identificabile come un anti-eroe, una trasposizione fiabesca e nietzscheana della storia di Cristo: “La storia di Cristo, nella incarnazione palazzeschiana, è interamente secolarizzata: siamo in un mondo in cui, secondo il motto di Nietzsche, Dio è morto. Perelà non è il figlio di Dio né dell’uomo; è il “figliolo della fiamma”, è l’uomo nuovo purificato. Il suo bizzarro messianismo è del tutto inconsapevole e involontario: egli non vuole nulla dagli uomini, non cerca discepoli, non predica” (De Maria, IX-X). L’eroe di fumo è un anti-eroe che risponde con brevissime battute alle mille domande incuriosite delle persone che incontra; si tratta di un soggetto davvero ‘narrato’, perché non può neppure parlare di sé stesso, tanto evanescente è la sua soggettività, ma che può solo, in diverse occasioni, dichiararsi leggerissimo “Io sono leggero…un uomo leggero… tanto leggero” (Palazzeschi, 5). La condizione di semi-assenza, di presenza volatile del personaggio Perelà è rispecchiata da quella del soggetto narrante che è, nel romanzo, completamente assente. L’assenza del soggetto narrante fa di quest’opera un autentico anti-romanzo futurista, che altera le convenzioni narrative del romanzo realista ottocentesco. Con gesto stilistico spregiudicato, infatti, la tecnica letteraria del Codice di Perelà ha tutta la provocatorietà che contraddistingue il romanzo futurista. Palazzeschi costruisce una trama reticolare di dialoghi fra l’uomo di fumo e diversi interlocutori che egli incontra a Torlindao, ma si tratta di una trama senza bordi né “racconti cornice” di matrice ottocentesca; inoltre, è solo a partire dai dialoghi che Perelà intreccia con le persone che lui incontra sul suo cammino, che il lettore può comprendere la storia dell’uomo di fumo. La tendenza stilistica è anti-aulica, come per molte opere futuriste, e nel testo ci sono fitte battute e frequenti cantilene infantili che, con forte ironia, Palazzeschi usa quali espedienti tecnici di una letteratura che fa della matrice fonica e onomatopeica uno dei suoi strumenti espressivi più potenti. La cantilena infantile diventa la metafora del fumismo (Poggioli 164) di Palazzeschi per descrivere la differenza profonda fra lo stupore infantile, candido e ingenuo di Perelà, e l’ipocrisia dei potenti. In un’opera quasi completamente priva di azione, il soggetto narrante tradizionale scompare lasciando posto ad un coro di voci che commentano gli avvenimenti: la destrutturazione del canone narrativo del romanzo ottocentesco è qui completamente attuata nella contaminazione stilistico-formale fra dialogo e romanzo corale in cui il soggetto narrante va letteralmente “in fumo”, proprio come l’anti-eroe protagonista impalpabile della storia. La modalità narrativa del romanzo realista ottocentesco poteva confidare sulla presenza di un soggetto narrante, di un narratore, esterno e “attendibile”, spesso “onniscente”, ovvero che conosce dal principio alla fine la storia che sta raccontando e in cui non è direttamente coinvolto, che edifica il corpo letterario come un sistema chiuso in cui può adottare il punto di vista di uno o più personaggi, e può intervenire liberamente per commentare gli eventi, i comportamenti e le azioni dei protagonisti in base al proprio sistema di riferimento culturale e ai propri valori morali. Il romanzo futurista ripensa invece la narratività a partire da una radicale rottura con il modello precedente.
Nel Codice di Perelà non è più possibile trovare il narratore, inoltre il tempo del racconto perde la sua linearità e la sua scansione ordinata cronologicamente. Ma è soprattutto il modo del racconto, le tecniche stilistiche e la figuralità estetica che distinguono profondamente le produzioni artistiche dell’avanguardia da quelle del romanzo realista tradizionale. Il Codice di Perelà incorpora, nell’assenza del soggetto narrante e nell’impalpabilità di quello narrato, nella diffrazione del tempo narrativo e nel sincretismo dello stile (una contaminazione fra dialogo e romanzo corale), alcune delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza della creazione futurista e del suo registro espressivo. Perelà, l’anti-eroe dell’anti-romanzo di Palazzeschi, è anche la figura metaforica dell’uomo libero dai condizionamenti sociali, e traduce fedelmente l’anelito di libertà di matrice nietzscheana col quale il futurismo italiano aveva apertamente dichiarato guerra alla cultura borghese dell’ottocento e al tradizionalismo delle sue forme narrative. L’irrisione dei valori codificati della società borghese riceve la sua raffigurazione nella leggerezza di Perelà come anticonformista radicale; inoltre, nell’immagine del fuoco purificatore che genera l’uomo di fumo, nell’appello “alla ragione dei pazzi” che si oppone alla razionalità dei “benpensanti” (si veda il dialogo fra Perelà e il pazzo volontario Zarlino), e soprattutto nella forte tendenza che l’uomo di fumo ha al restare in silenzio, c’è il segreto che avvicina la leggerezza di Perelà a quella di un “nuovo Zarathustra” che abbraccia il messaggio di libertà contro l’ordine precostituito; “il silenzio dell’uomo di fumo simbolizza una condizione altra, ricca di risonanze rivoluzionarie, almeno nel campo dell’avanguardia” (Pieri).
Filippo Tommaso Marinetti, nel suo testo Democrazia futurista, scrive: “Gli anarchici si accontentano di assalire i rami politici, giuridici ed economici dell’albero sociale, mentre noi vogliamo assai di più…Di quest’albero, infatti noi vogliamo strappare e abbruciare le più profonde radici: quelle piantate nel cervello dell’uomo e che si chiamano: desiderio del minimo sforzo, quietismo vile, amore dell’antico e del vecchio, di ciò che è corrotto e ammalato, orrore del nuovo, disprezzo della gioventù, venerazione del tempo, degli anni accumulati, dei morti e dei moribondi, bisogno istintivo di leggi, di catene e di ostacoli, paura di una libertà totale” (Marinetti 416-417). Il culto della libertà totale è qui ingaggiato da Marinetti come guerra incendiaria anti-passatista e anti-tradizionale. Senza dubbio la figura di Perelà, inventata nel romanzo di Palazzeschi, entra a far parte del pantheon degli anti-eroi futuristi, per il suo l’antagonismo contro la società borghese, che esso calibra in termini di neutralità morale e inconsistenza effimera del soggetto-fumo. “Infine io ho pienamente ragione, i tempi sono molto cambiati, gli uomini non domandano più nulla dai poeti, e lasciatemi divertire!” – scrive Palazzeschi in un altro suo lavoro dal titolo L’incendiario, pubblicato solo un anno prima di Il Codice di Perelà. L’ironia di Palazzeschi e il senso anche burlesco della sfida lanciata ai suoi contemporanei nascondono “un umorismo plumbeo, consono al colore del protagonista” (Palazzeschi, 1911), un umorismo grigio fumo, perché ossessionato dalla consapevolezza di quanto, nel pathos storico del primo novecento, l’atto creativo abbia luogo in uno stato di crisi.
In questo contesto di crisi epocale, dunque, Il Codice di Perelà assume una portata fondamentale: nell’aver inventato l’uomo di fumo, la cui storia “si racconta da sola” come per un automatismo, in assenza di un narratore riconoscibile e attraverso i dialoghi e il romanzo corale, questo romanzo ha dato voce alla decostruzione del soggetto tradizionale del romanzo ottocentesco. Nel personaggio di Perelà, Palazzeschi propone una versione “fumista, burlesca, ballettista” del senso iconoclasta e anti-passatista dell’avanguardia come ideale apocalittico. L’anti-eroe palazzeschiano è infatti la dimostrazione dell’epilogo ideologico e letterario della coscienza tragico-borghese: nella figura di Perelà, nessuno scontro fra Io e mondo, il mondo gli è estraneo; “Enunciare l’ideale della leggerezza come identità del soggetto afferma l’unità del soggetto dal punto di vista della sua negazione ideologica e culturale. Ideologicamente, allora, Perelà è quel che appare: una specularità del cogito, cioè la morte del soggetto. Inerte e socialmente estraneo, il suo antiromantico e parodico “voyage” è senza cogito” (Pieri). La leggerezza è allora agli antipodi dell’autocoscienza, è l’altro dell’identità: il fumo del soggetto senza cogito significa che il soggetto metafisico e cartesiano è andato in fumo, quello narrato così come quello narrante: “la cifra del soggetto, in Perelà, è il ‘grado zero’ partecipe del suo azzeramento. La coscienza del tempo soggiace all’atopia e all’atipia del soggetto” (Pieri). La particolare modalità che il “figliolo della fiamma” ha scelto per essere presente nella effimera materia del fumo, rivela quanto Palazzeschi abbia eliminato completamente dalla prosa il mondo psicologico e culturale del cogito: “perché di fumo, Perelà resta la negazione di ogni ‘volontà di potenza’ individualmente affermata. Dell’uomo superiore semmai ha la noluntas. Quindi, il fumo di Perelà ha la funzione di ‘velo di Maya’ dietro il quale si nasconde e si manifesta il ‘noumeno’ del fuoco, e cioè la prima figura eversiva della tematica palazzeschiana e, per esteso, la prima figura apocalittica dell’avanguardia europea, da Nietzsche all’espressionismo e al futurismo. L’equivalenza nel romanzo di fumo e fuoco, gli espliciti o impliciti richiami al potere trasgressivo dell’incendio e nello stesso tempo all’ideale della ‘leggerezza’, costituiscono la compresenza di due primarie verità del nichilismo moderno: l’atopia e l’utopia, quel che Nietzsche volle chiamare nella sua incompiuta Volontà di potenza come il nichilismo attivo e il nichilismo passivo” (Pieri). L’uomo di fumo creato dall’immaginazione di Palazzeschi è una delle figure futuriste per eccellenza – la materia ha in esso preso forma umana senza perdere la sua consistenza e la sua logica interne, trasferendo piuttosto all’umano le caratteristiche della materia stessa, che in questo modo dissolvono il soggetto umano e lo liberano dal peso della sua umanità ingombrante, “parassita” e “passatista”. Il frutto futurista dell’etica liberatoria del fuoco è, con Palazzeschi, quello di un uomo nuovo, leggerissimo e ultra-umano, l’uomo di fumo.
Bibliografia
DE MARIA, L., 1974, Introduzione a Il Codice di Perelà, Mondadori.
MARINETTI, F.T., 1919, Democrazia futurista, in Teoria e Invenzione futurista, Mondadori (1968).
PALAZZESCHI, A., 1910, L’incendiario.
PALAZZESCHI, A., 1911, Il Codice di Perelà.
PIERI, P., Il codice di Perelà di Palazzeschi. L’altro del fumo, l’oltre dell’uomo.
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
SITI, W., 1975, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi.
Immagine della puntata: Giacomo Bella, “Volo di rondini“, 1913
Futurballa è il nome d’arte dietro cui si cela una delle personalità più eclettiche e poliedriche del Futurismo: Giacomo Balla. Pittore, scultore, scenografo e autore di testi che seguono l’estetica del “paroliberismo” inaugurata da Marinetti, Balla è esponente di spicco dell’avanguardia italiana. Insieme ad altri futuristi italiani, firma i manifesti che sanciscono gli aspetti teorici ed estetici del movimento futurista, anche esasperandone i contenuti. Negli anni della prima guerra mondiale, Balla persegue l’idea di un’arte totale, definita arte-azione futurista, la cui massima aspirazione è quella di lasciare che lo smodato e caleidoscopico vento dell’estetica futurista invada tutti i campi dell’arte fino a interessare anche quelli dell’artigianato d’autore, come ad esempio la moda.
Nel 1914 infatti, egli firma a Parigi il manifesto futurista Le vêtement masculin futuriste (Il vestito maschile futurista) a cui segue qualche mese dopo l’edizione italiana intitolata Il vestito antineutrale. Si tratta di un testo che teorizza le linee fondamentali della moda maschile futurista ed è corredato da figurini e modelli che dimostrano graficamente l’idea di Balla per una nuova estetica nel campo dell’abbigliamento. Il vestito di Balla è anti-neutrale perché concepito in piena critica contro il soffocante, cupo, vecchio e “passatista” modo di vestire maschile. Balla propone un modello più dinamico, audace e variopinto, che si adegui al concetto futurista di modernità e progresso: “Alla base dell’ideologia futurista vi è un nuovo sistema di vita che avversa fortemente il passato in tutte le sue espressioni, e inneggia al dinamismo, alla velocità, all’accensione dei colori, all’irregolarità e all’asimmetrico” (Di Fazio, pp. 18-19). L’abito proposto da Balla è quinti un abito progressista, quasi “automatico”, al tempo stesso festoso e bellicoso, che strizza l’occhio all’etica della guerra, alla poetica dell’automatismo e all’estetica del carnevale:
“L’umanità si vestì sempre di quiete, di paura, di cautela o d’indecisione, portò sempre il lutto, o il pivale, o il mantello. Il corpo dell’uomo di sempre diminuito da sfumature e da tinte neutre, avvilito dal nero, soffocato da cinture, imprigionato da panneggiamenti. Fino ad oggi gli uomini usarono abiti di colore e forme statiche, cioè drappeggiati, solenni gravi, incomodi e sacerdotali. Erano espressioni di timidezza, di malinconia e di schiavitù, negazione della vita muscolare, che soffocava in un passatismo anti-igienico di stoffe troppo pesanti e di mezze tinte tediose, effeminate o decadenti. Tonalità e ritmi di pace desolante, funeraria e deprimente. Oggi vogliamo abolire: 1. – Tutte le tinte neutre, “carine”, sbiadite, fantasia, semioscure e umilianti. 2. – Tutte le tinte e le fogge pedanti, professorali e teutoniche. I disegni a righe, a quadretti, a puntini diplomatici. 3. – I vestiti del lutto, nemmeno adatti per i becchini. Le morti eroiche non devono essere compiante, ma ricordate con vestiti rossi. 4. – L’equilibrio mediocrista, il cosiddetto buon gusto e la cosiddetta armonia di tinte e di forme, che frenano gli entusiasmi e rallentano il passo. 5. – La simmetria nel taglio, le linee statiche, che stancano, deprimono, contristano, legano i muscoli; l’uniformità di goffi risvolti e tutte le cincischiature. I bottoni inutili. I colletti e i polsini inamidati. Noi futuristi vogliamo liberare la nostra razza da ogni neutralità, dall’indecisione, paurosa e quietista, dal pessimismo negatore e dall’inerzia nostalgica, romantica e rammollente. Noi vogliamo colorare l’Italia di audacia e di rischio futurista, dare finalmente agl’italiani degli abiti bellicosi e giocondi. Gli abiti futuristi saranno dunque: 1. – Aggressivi, tali da moltiplicare il coraggio dei forti e da sconvolgere la sensibilità dei vili. 2. – Agilizzanti, cioè tali da aumentare la flessibilità del corpo e da favorirne lo slancio nella lotta, nel passo di corsa o di carica. 3. – Dinamici, pei disegni e i colori dinamici delle stoffe, (triangoli, coni, spirali, elissi, circoli) che ispirino l’amore del pericolo, della velocità e dell’assalto, l’odio della pace e dell’immobilità. 4. – Semplici e comodi, cioè facili a mettersi e a togliersi, che ben si prestino per puntare il fucile, guardare i fiumi e lanciarsi a nuoto. 5. – Igienici, cioè tagliati in modo che ogni punto della pelle possa respirare nelle lunghe marcie e nelle salite faticose. 6. – Gioiosi. Stoffe di colori e iridescenze entusiasmanti. Impiegare i colori muscolari, violentissimi, rossissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, aranciooooni, vermiglioni. 7. – Illuminanti. Stoffe fosforescenti, che possono accendere la temerità in un’assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi.8. – Volitivi. Disegni e colori violenti, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia. 9. – Asimmetrici. Per esempio, l’estremità delle maniche e il davanti della giacca saranno a destra rotondi, a sinistra quadrati. Geniali contro attacchi di linee. 10. – Di breve durata, per rinnovare incessantemente il godimento e l’animazione irruente del corpo. 11. Variabili, per mezzo dei modificanti (applicazioni di stoffa, di ampiezza, spessori, disegni e colori diversi) da disporre quando si voglia, su qualsiasi punto del vestito, mediante bottoni pneumatici. Ognuno può così inventare ad ogni momento un nuovo vestito. Il modificante sarà prepotente, urtante, stonante, decisivo, guerresco, ecc. Il cappello futurista sarà asimmetrico e di colori aggressivi e festosi. Le scarpe futuriste saranno dinamiche, diverse l’una dall’altra, per forma e per colore, atte a prendere allegramente a calci tutti i neutralisti. Sarà brutalmente esclusa la unione del giallo col nero. Si pensa e si agisce come si veste. Poiché la neutralità è la sintesi di tutti i passatismi, noi futuristi sbandieriamo oggi questi vestiti antineutrali, cioè festosamente bellicosi. Soltanto i podagrosi ci disapproveranno. Tutta la gioventù italiana riconoscerà in noi, che li portiamo, le sue viventi bandiere futuriste per la nostra grande guerra, necessaria, URGENTE. Se il Governo non deporrà il suo vestito passatista di paura e d’indecisione, noi raddoppieremo, CENTUPLICHEREMO IL ROSSO del tricolore che vestiamo” (Balla, Il vestito antineutrale).
Come afferma la studiosa Emily Braun: “I futuristi miravano a ‘ricostruire l’universo’, non solo attraverso il design pratico di oggetti e spazi, ma anche sfruttando la massa dei media e lo spettacolo pubblico. Concepirono una moderna ‘antiumanità’, la cui esistenza prosperava sui valori tecnologici di velocità, dinamismo e innovazione incessante. L’avanguardia futurista inventò uno stile politico di provocazione, ritenendo che la tirannia della tradizione potesse essere superata solo attraverso un costante attacco alle istituzioni superate, ai costumi sociali e persino ai ruoli di genere. Il loro programma estetico e ideologico si manifesta, meglio che nella teoria, soprattutto nel design della moda: attraverso le specificità dell’abbigliamento, i futuristi volevano vestire una politica rivoluzionaria che prosperava proprio sul bisogno di espressione individuale in una società anonima e di massa. Inoltre, il fenomeno operava su una serie di livelli congeniali all’impresa futurista: promuoveva il nuovo e scartava il vecchio, confondeva le linee tra arte e industria e si basava sullo stile come dichiarazione sociale ed estetica. In generale, i futuristi chiedevano abiti che favorissero la salute e il comfort e che bandissero i dettagli volgari, i tessuti costosi e, in definitiva, la distinzione di classe nell’abbigliamento. Linee eleganti e forme semplici promuovevano il libero movimento del corpo umano, e il ritmo frenetico della vita moderna era evocata da disegni tessili dinamici e tagli asimmetrici. I futuristi suggerirono un uso non ortodosso di tessuti naturali e industriali – carta, paglia, iuta, gomma, metalli e plastica. I marroni, i neri e i grigi vennero smontati in quanto stoici e tradizionali, mentre i colori primari brillanti e i riflettenti persino fosforescenti, indicavano la strada verso un futuro scintillante ed esuberante” (Braun, 34).
Il colore rappresenta un elemento essenziale nell’arte futurista di Giacomo Balla, perché riesce a tradurre al meglio la sua aspirazione al dinamismo, a dare letteralmente forma alla velocità. Il 18 Ottobre 1918, Balla scrive il Manifesto del colore: “1. Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno. 2. Nel groviglio delle tendenze avanguardiste, siano esse futuriste, o semi-futuriste, domina il colore. Deve dominare il colore poiché privilegio tipico del genere italiano. 3. L’impotenza coloristica del colore e il peso culturale di tutte le pitture nordiche, impantanano eternamente l’arte, nel grigio, nel funerario, nello statico, nel monacale, nel legnoso, nel pessimista, nel neutro, o nell’effeminatamente grazioso e indeciso. 4. La pittura futurista italiana, essendo e dovendo essere sempre più una esplosione di colore non può essere che giocondissima, audace, aerea, elettricamente lavata di bucato, dinamica, violenta, interventista. 5. Tutte le pitture passatiste o pseudo-futuriste danno una sensazione di preveduto, di vecchio, di stanco e di già digerito. 6. La pittura futurista è una pittura a scoppio, una pittura a sorpresa. 7. Pittura dinamica: simultaneità delle forze”. (Balla, Manifesto del colore).
Non stupisce che Balla abbia cercato l’esplosione del colore in ogni campo della sua vita e abbia ad esempio trasformato anche la sua propria abitazione in una specie di alcova cromatica, decorando pareti e mobili in un tripudio di forme dai colori smaglianti. Sempre in quegli anni, poi, nel 1915, Giacomo Balla firma, insieme al collega futurista Fortunato Depero, il manifesto dal titolo Ricostruzione futurista dell’universo, di cui parleremo nella prossima puntata, dove viene teorizzato il dinamismo pittorico e il dinamismo plastico che si collegano bene all’idea che Balla aveva dell’arte totale futurista: un’arte onnipervasiva che costruisce tutte le architetture della velocita assemblando i colori e le forme con i rumori, i suoni e le parole in libertà.
Bibliografia
BALLA, G., Scritti futuristi, raccolti e curati da Giovanni Lista, Abscondita, Milan, 2010.
BROWN, E., Futurist Fashion. Three Manifestos, Art Journal, Vol. 54, No. 1, “Clothing as Subject” (Spring, 1995).
DI FAZIO, M., Bottoni, cappelli e…, Edizioni Artemide, 2014.
LISTA, G., Le Futurisme: création et avant-garde, Éditions L’Amateur, Paris, 2001.
LISTA, G., Balla, la modernità futurista, Edizioni Skira, Milan, 2008.
LISTA, G., Giacomo Balla: futurismo e neofuturismo, Mudima, Milano, 2009.
Immagine della puntata: Giacomo Bella, “Lampada ad arco“, 1909
L’11 marzo del 1915, a Milano, Giacomo Balla firma, insieme al collega futurista Fortunato Depero, il manifesto dal titolo Ricostruzione futurista dell’universo. In questo testo viene teorizzato il dinamismo pittorico e il dinamismo plastico come principali esigenze estetiche futuriste che mirano a rileggere il cosmo del reale in base a nuove leggi del movimento e della velocità, e a rappresentarlo quindi sulla scena dell’arte intesa come cosmogonia di matrice futurista: “Il futurismo pittorico si è svolto quale superamento e solidificazione dell’impressionismo, dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo. La valutazione lirica dell’universo, mediante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fondono col dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto. Balla cominciò collo studiare la velocità delle automobili, ne scoprí le leggi e le linee-forze essenziali. Dopo più di 20 quadri sulla medesima ricerca, comprese che il piano unico della tela non permetteva di dare in profondità il volume dinamico della velocità. Balla senti la necessità di costruire con fili di ferro, piani di cartone, stoffe e carte veline, ecc., il primo complesso plastico dinamico. 1. Astratto. – 2. Dinamico. Moto relativo (cinematografo) + moto assoluto. – 3. Trasparentissimo. Per la velocità e per la volatilità del complesso plastico, che deve apparire e scomparire, leggerissimo e impalpabile. – 4. Coloratissimo e Luminosissimo (mediante lampade interne). – 5. Autonomo, cioè somigliante solo a sé stesso. – 6. Trasformabile. – 7. Drammatico. – 8. Volatile. – 9. Odoroso. – 10. Rumoreggiante. Rumorismo plastico simultaneo coll’espressione plastica. – 11. Scoppiante, apparizione e scomparsa simultanee a scoppi. Il parolibero Marinetti, al quale noi mostrammo i nostri primi complessi plastici ci disse con entusiasmo: ‘L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’arte diventa arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte (Es.: onomatopee. – Es.: intonarumori = motori), splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare. Ecco perché il nuovo Oggetto (complesso plastico) appare miracolosamente fra le vostre’.
Per la costruzione materiale del complesso plastico i MEZZI NECESSARI sono: fili metallici, di cotone, lana, seta d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carte veline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, lamine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime. Congegni meccanici, elettrotecnici, musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc. Con questi mezzi noi costruiamo delle ROTAZIONI 1. Complessi plastici che girano su un perno (orizzontale, verticale, obliquo).
- Complessi plastici che girano su più perni: a) in sensi uguali, con velocità varie, b) in sensi contrari; c) in sensi uguali e contrari. Poi SCOMPOSIZIONI 3. Complessi plastici che si scompongono: a) a volumi; b) a strati, c) a trasformazioni successive (in forma di coni, piramidi, sfere, ecc.). 4. Complessi plastici che si scompongono, parlano, rumoreggiano, suonano simultaneamente. E ancora SCOMPOSIZIONE TRASFORMAZIONE FORMA + ESPANSIONE ONOMATOPEE SUONI RUMORI MIRACOLO MAGIA 5. Complessi plastici che appaiono e scompaiono: a) lentamente, b) a scatti ripetuti (a scala); c) a scoppi improvvisi Pirotecnica – Acque – Fuoco -Fumi. La scoperta-invenzione sistematica infinita mediante l’astrattismo complesso costruttivo rumorista, cioè lo stile futurista. Ogni azione che si sviluppa nello spazio, ogni emozione vissuta, sarà per noi intuizione di una scoperta. ESEMPI: Nel veder salire velocemente un aeroplano, mentre una banda suonava in piazza, abbiamo intuito il Concerto plastico moto-rumorista nello spazio e il Lancio di concerti aerei al di sopra della città. – La necessità di variare ambiente spessissimo e lo sport ci fanno intuire il Vestito trasformabile (applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizioni d’individui) – La simultaneità di velocità e rumori ci fa intuire la Fontana giro-plastica rumorista. – L’aver lacerato e gettato nel cortile un libro, ci fa intuire la Réclame fono-moto-plastica e le Gare pirotecnico-plastico-astratte. – Un giardino primaverile sotto il vento ci fa intuire il Fiore magico trasformabile moto-rumorista. – Le nuvole volanti nella tempesta ci fanno intuire l’Edificio di stile rumorista trasformabile.
Sul giocattolo futurista. Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini, carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti domestici), anti-ginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino. Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueranno il bambino: 1) a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente buffi); 2) all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili, frustate, punture improvvise, ecc.); 3) allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui scoppieranno meraviglie pirotecniche; congegni in trasformazione ecc.) 4) a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel dominio sconfinato dei rumori, odori, colori, più intensi, più acuti, più eccitanti). 5) al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi). Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo.
Sul paesaggio artificiale. Sviluppando la prima sintesi della velocità dell’automobile, Balla è giunto al primo complesso plastico. Questo ci ha rivelato un paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre. Dunque un’analogia profonda esiste fra le linee-forze essenziali della velocità e le linee-forze essenziali d’un paesaggio. Siamo scesi nell’essenza profonda dell’universo, e padroneggiamo gli elementi. Giungeremo così, a costruire l’animale metallico. Fusione di arte + scienza. Chimica fisica pirotecnica continua improvvisa, dell’essere nuovo automaticamente parlante, gridante, danzante. Noi futuristi Balla e Depero, costruiremo milioni di animali metallici, per la più grande guerra (conflagrazione di tutte le forze creatrici dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America, che seguirà indubbiamente l’attuale meravigliosa piccola conflagrazione umana). Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d’Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità.” (Balla e Depero, Ricostruzione futurista dell’Universo).
In queste ultime righe del manifesto, Giacomo Balla riesce a intuire qualcosa di essenziale sul grande contributo che solo il futurismo italiano, primo fra tutte le altre avanguardie europee, riesce a trasmettere ad una intera nuova stagione della sensibilità artistica del primo novecento. Infatti, quello che nel manifesto viene chiamato “complesso plastico astratto” è forse una delle più precise e illuminanti definizioni del modo di concepire la rappresentazione del mondo da parte di tutte le avanguardie artistiche successive a quella futurista: dal cubismo, all’astrattismo e al surrealismo. Giacomo Balla cerca di applicare i precetti dell’estetica futurista in tutti i campi in cui esercita la sua arte. Inizia infatti a lavorare sull’onomatopea, cioè sull’arte di restituire il rumore attraverso la lingua scritta, prova poi a comporre tavole parolibere e a progettare scenografie mettendo in evidenza i collegamenti tra l’immagine e la dimensione fonetico-rumorista. Nel 1917 progetta le scene per il balletto senza danzatori dal titolo Feu d’artifice (Fuoco d’artificio) che va in scena al Teatro Costanzi di Roma, prodotto dai Ballets Russes di Diaghilev, con musiche di Stravinskij. Nello stesso periodo crea arredi, mobili, suppellettili e partecipa alle sequenze del film Vita futurista (1916), presenziando con Marinetti alle riprese. Ma è nell’arte pittorica che Giacomo Balla è in grado di sperimentare le più innovative forme dell’arte futurista, e anche le prime coraggiose ibridazioni fra l’arte futurista e le emergenti avanguardie che sorgono nello stesso periodo. Ne parleremo nel prossimo podcast su Giacomo Balla.
Bibliografia
ARGAN, G. C., L’arte moderna 1770 – 1970, Sansoni, 1970.
BALLA, G., Scritti futuristi, raccolti e curati da Giovanni Lista, Abscondita, Milano, 2010.
LISTA, G., Le Futurisme: création et avant-garde, Éditions L’Amateur, Paris, 2001.
LISTA, G., Balla, la modernità futurista, Edizioni Skira, Milano, 2008.
LISTA, G., Giacomo Balla: futurismo e neofuturismo, Mudima, Milano, 2009.
Immagine della puntata: Giacomo Bella, “Velocità astratta + rumore“, 1913
L’arte pittorica è decisamente il luogo in cui Giacomo Balla è in grado di sperimentare le più innovative forme dell’arte futurista, e anche le prime coraggiose ibridazioni fra l’arte futurista e le emergenti avanguardie che sorgono nello stesso periodo. L’artista futurista Gino Severini scriveva infatti di lui: “Fu Giacomo Balla, divenuto nostro maestro, che ci iniziò alla tecnica moderna del divisionismo. Balla era un uomo di assoluta serietà, profondo, riflessivo e pittore nel più ampio senso della parola. … Fu una grande fortuna per noi di incontrare un tale uomo, la cui decisione decise forse di tutta la nostra carriera. L’atmosfera della pittura italiana era a quel momento la più fangosa e deleteria che si potesse immaginare; in un simile ambiente anche Raffaello sarebbe arrivato appena al quadro di genere!”. Infatti prima di iniziare l’esperienza futurista, Giacomo Balla era stato molto influenzato dal neo-impressionismo francese e dai lavori di Georges Seurat, il padre del “divisionismo” (anche detto “puntinismo’) e di Paul Signac, di cui aveva appreso le tecniche durante un soggiorno che fece a Parigi nel 1900. Al suo ritorno a Roma, Balla aveva mostrato subito la padronanza dello stile neoimpressionista nei suoi quadri e aveva trasmesso a due artisti più giovani, Umberto Boccioni e Gino Severini, la tecnica divisionista in pittura. Le prime opere di Balla riflettono le tendenze contemporanee francesi, ma accennano anche al suo interesse di tutta la vita per la resa della luce e dei suoi effetti. Il suo dipinto dal titolo Lampada ad arco del 1909 è forse l’opera più emblematica a testimonianza degli studi condotti da Balla sulla luce, in chiave “puntinista”. Se la velocità era la forza prevalente nel futurismo, Giacomo Balla capisce anche che la luce rappresenta l’elemento più veloce dell’universo, e la rifrazione della luce in un lampione è un primo dipinto che dimostra come un tale prisma scheggiato possa diventare un potente esempio di un soggetto bidimensionale che esplode sullo spettatore. Scrive Enrico Prampolini: “La ‘solidificazione dell’Impressionismo’ costituisce la base di sviluppo della pittura di Balla futurista: cioè il passaggio dalla suddivisione del pigmento colorato del divisionismo alla costruzione geometrica astratta – a sé stante – delle compenetrazioni iridescenti”.
Nel dipinto I ritmi dell’archetto, del 1912, Giacomo Balla riusciva quasi a restituire i riverberi sonori dello strumento del violino, come in un esperimento di fotodinamismo futurista. È un dipinto splendidamente reso e ricorda Il nudo che scende le scale, quadro che Marcel Duchamp dipingeva nello stesso anno. Tra la fine del 1912 e l’inizio del 1913 infatti Giacomo Balla passa dalla rappresentazione della frammentazione della luce all’esplorazione del movimento e, più specificamente, della velocità delle automobili da corsa. Questo portò a un’importante serie di studi nel 1913-14 conosciuto come Velocità astratta + rumore, un turbine di linee dinamiche che si intersecano e colore, che è anche la copertina del mio podcast di oggi. La scelta dell’automobile come simbolo della velocità astratta ricorda la famigerata dichiarazione di Filippo Tommaso Marinetti nel suo primo manifesto futurista, pubblicato il 20 febbraio 1909 su Le Figaro a Parigi, solo un decennio dopo la produzione della prima automobile italiana: “Lo splendore del mondo si è arricchito di una nuova bellezza: la bellezza della velocità. … Un’automobile ruggente…. che sembra correre su schegge, è più bella della Vittoria di Samotracia”. In questo trittico narrativo si suggerisce l’alterazione del paesaggio dopo il passaggio di un’automobile attraverso l’atmosfera. Si distingue per i motivi incrociati, che rappresentano il suono, e una moltiplicazione del numero di linee e piani. Le cornici originali di tutti e tre i pannelli sono state dipinte con la continuazione delle forme e dei colori delle composizioni, implicando la tracimazione della realtà dei dipinti nello spazio dello spettatore. Giulio Carlo Argan scriverá di lui: “Balla che sul tema del dinamismo meditava già da alcuni anni (il famoso Cane al guinzaglio è del 1912), va al di là di Boccioni: prescinde quasi totalmente dall’immagine visiva per dare l’immagine psicologica del moto. La sua ricerca è prevalentemente linguistica: mira a stabilire un codice di segni significanti velocità, dinamismo ecc. Sono concetti che interessano intensamente l’uomo moderno: concetti che vogliono essere espressi visivamente perché la percezione è più rapida della parola, e che non possono essere espressi tramite segni che implichino riferimenti alla natura, perché debbono esprimere qualcosa di non naturale, di realizzato mediante congegni meccanici”.
Nel 1914, il poliedrico Giacomo Balla inizia a sperimentare anche la scultura e nel 1915 crea Il Pugno di Boccioni la sua opera plastica più famosa. Nel campo della scultura, sperimenta vari materiali, tra cui fogli di alluminio, specchi, vetro colorato, cartone e vari tipi di tessuto. La sua arte é d’avanguardia perché tridimensionale. Questo ulteriore aspetto innovativo rende Giacomo Balla uno dei co-fondatori della scultura astratta. Nel 1929, insieme a Filippo Marinetti e al pittore Gerardo Dottori e allo scultore Bruno Munari, Giacomo Balla fonda il movimento dell’Aeropittura, propaggine del Futurismo in cui gli artisti cercavano di rappresentare la sensazione del volo, di cui abbiamo parlato in uno dei podcast di questa serie sul futurimo.
Ma l’arte di Giacomo Balla non si ferma al contesto futurista. L’ecletticitá di questo pittore si misura dalla sua capacitá di passare dal neo-impressionismo al futurismo e poi, nel secondo dopoguerra, ad una forma di post-futurismo. In una intervista radiofonica del 1952, Giacomo Balla affermava: “Il Futurismo Italiano sorse come movimento irresistibile e inevitabile, espressione di quel bisogno di rinnovamento che ormai urgeva, in ogni campo, per adeguare ogni forma di vita all’immenso cambiamento operato in questo nostro secolo dal divulgarsi delle straordinarie scoperte scientifiche”. “Il Futurismo più che nel campo dell’arte pura – affermava Giacomo Balla – ha influito in ogni manifestazione di vita dei nostri tempi, il suo influsso si palesa infatti dall’architettura all’arredamento, dalle vetrine all’abbigliamento, ovunque il futurismo ha dato la sua impronta, fu questo bisogno di rinnovamento che ci portò quarant’anni fa a sfondare le dighe del passatismo e mi rincresce ora vedere passare dalle brecce aperte all’arte nuova, tante deviazioni e deformazioni che fanno orrore. Pure nell’attuale confusione, forse anch’essa necessaria, è certo qualche fermento che in un tempo avvenire si manifesterà in quelle forme di Arte pura e illuminata da nuovi ideali, di cui fiduciosi attendiamo l’evento…”. Quindi Giacomo Balla non giudicava chiusa l’esperienza futurista, anzi la nuova arte doveva nascere proprio da questa esperienza. Con questo principio Balla, considerando forse il futurismo nato troppo presto per un paese come l’Italia, ritorna a una forma di pittura figurativa però mettendo a frutto tutta la lezione dell’avanguardia futurista; da questa, gli ultimi quadri, paesaggi e ritratti. Le due figlie di Balla, a cui il padre dona due nomi decisamente futuristi, Luce ed Elica, affermeranno dopo la morte del padre: “Tutta l’ esperienza futurista del contrasto dei colori del movimento, della velocità, era condensata negli ultimi dipinti dove si aggiungeva anche la perizia del ritrattista, del pittore divisionista di fine Ottocento”. Giacomo Balla é perciò, senza alcun dubbio, uno dei maestri dell’avanguardia del Novecento.
Bibliografia
ARGAN, G. C., L’arte moderna 1770 – 1970, Sansoni, 1970.
BALLA, G., Scritti futuristi, raccolti e curati da Giovanni Lista, Abscondita, Milano, 2010.
LISTA, G., Le Futurisme: création et avant-garde, Éditions L’Amateur, Paris, 2001.
LISTA, G., Balla, la modernità futurista, Edizioni Skira, Milano, 2008.
LISTA, G., Giacomo Balla: futurismo e neofuturismo, Mudima, Milano, 2009.
SEVERINI, G., Tutta la vita di un pittore, Garzanti, 1946.
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “Forme uniche di continuità nello spazio“, 1913
Umberto Boccioni è, a fianco a Giacomo Balla, un altro fra i maestri dell’avanguardia novecentesca. Pittore e scultore di eccezionale originalità, Boccioni, entra a far parte del firmamento futurista per il suo modo innovativo di rappresentare visivamente il movimento: la sua ricerca incessante sui rapporti e l’interazione fra oggetto e spazio circostante hanno influenzato profondamente le costellazioni della pittura e della scultura del novecento. Partecipa attivamente, con Marinetti e con gli artisti Carrà, Russolo e Severini, alla stesura del Manifesto tecnico del movimento futurista nel 1912, addirittura anticipandone le linee estetiche e teoriche nel 1910, quando scrive il Manifesto dei pittori futuristi di cui abbiamo parlato in uno dei podcast precedenti, presentando le linee essenziali della pittura futurista. La vivacitá del mondo contemporaneo, il suo vortice di novità sempre in evoluzione, le sue trasformazioni velocissime ed esaltanti sono gli aspetti che ispirano l’arte di Boccioni. Nelle sue opere, Boccioni sa esprimere magistralmente il movimento delle forme e la concretezza della materia. Nella sua arte la sensibilità pittorica e quella scultorea si compenetrano e si fecondano a vicenda. La sua pittura è in qualche modo “scultorea” e la sua scultura è decisamente “aerea”. In entrambi questi spazi dell’espressione artistica, Boccioni riesce nella raffigurazione di uno stesso soggetto in stadi successivi nel tempo e suggerisce efficacemente l’idea dello spostamento nello spazio. Nella scultura, Boccioni trascura i materiali nobili come marmo e bronzo, preferendo il legno, il ferro e il vetro. Il motivo per il quale il podcast di oggi è dedicato alla scultura di Boccioni è perché a mio avviso essa “precede” la sua pittura, ne è in qualche modo l’a-priori, la condizione di possibilitá estetica. Nel 1912, Umberto Boccioni scrive il Manifesto tecnico della scultura futurista. Ecco il contenuto della prima metà del manifesto, in cui Boccioni paragona la scultura tradizionale e semi-innovativa, alla grande rivoluzione futurista che investe tutto il complesso scultoreo: “La scultura, nei monumenti e nelle esposizioni di tutte le città d’Europa offre uno spettacolo così compassionevole di barbarie, di goffaggine e di monotona imitazione, che il mio occhio futurista se ne ritrae con profondo disgusto! Nella scultura d’ogni paese domina l’imitazione cieca e balorda delle formule ereditate dal passato, imitazione che viene incoraggiata dalla doppia vigliaccheria della tradizione e della facilità. Nei paesi latini abbiamo il peso obbrobrioso della Grecia e di Michelangelo, che è sopportato con qualche serietà d’ingegno in Francia e nel Belgio, con grottesca imbecillaggine in Italia. Nei paesi germanici abbiamo un insulso goticume grecizzante, industrializzato a Berlino o smidollato con cura effeminata dal professorume tedesco a Monaco di Baviera. Nei paesi slavi, invece, un cozzo confuso tra il greco arcaico e i mostri nordici od orientali. Ammasso informe di influenze che vanno dall’eccesso di particolari astrusi dell’Asia, alla infantile e grottesca ingegnosità dei Lapponi e degli Eschimesi. In tutte queste manifestazioni della scultura ed anche in quelle che hanno maggior soffio di audacia innovatrice si perpetua lo stesso equivoco: l’artista copia il nudo e studia la statua classica con l’ingenua convinzione di poter trovare uno stile che corrisponda alla sensibilità moderna senza uscire dalla tradizionale concezione della forma scultoria. La quale concezione col suo famoso «ideale di bellezza» di cui tutti parlano genuflessi, non si stacca mai dal periodo fidiaco e dalla sua decadenza. Ed è quasi inspiegabile come le migliaia di scultori che continuano di generazione in generazione a costruire fantocci non si siano ancora chiesti perchè le sale di scultura siano frequentate con noia ed orrore, quando non siano assolutamente deserte, e perchè i monumenti si inaugurino sulle piazze di tutto il mondo tra l’incomprensione o l’ilarità generale. Questo non accade per la pittura, a causa del suo rinnovamento continuo, che, per quanto lento, è la più chiara condanna dell’opera plagiaria e sterile di tutti gli scultori della nostra epoca! Bisogna che gli scultori si convincano di questa verità assoluta: costruire ancora e voler creare con gli elementi egizi, greci o michelangioleschi è come voler attingere acqua con una secchia senza fondo in una cisterna disseccata! Non vi può essere rinnovamento alcuno in un’arte se non ne viene rinnovata l’essenza, cioè la visione e la concezione della linea e delle masse che formano l’arabesco. Non è solo riproducendo gli aspetti esteriori della vita contemporanea che l’arte diventa espressione del proprio tempo, e perciò la scultura come è stata intesa fino ad oggi dagli artisti del secolo passato e del presente è un mostruoso anacronismo! La scultura non ha progredito, a causa della ristrettezza del campo assegnatole dal concetto accademico del nudo. Un’arte che ha bisogno di spogliare interamente un uomo o una donna per cominciare la sua funzione emotiva è un’arte morta! La pittura s’è rinsanguata, approfondita e allargata mediante il paesaggio e l’ambiente fatti simultaneamente agire sulla figura umana o su gli oggetti, giungendo alla nostra futurista Compenetrazione dei piani. Cosi la scultura troverà nuova sorgente di emozione, quindi di stile, estendendo la sua plastica a quello che la nostra rozzezza barbara ci ha fatto sino ad oggi considerare come suddiviso, impalpabile, quindi inesprimibile plasticamente. Noi dobbiamo partire dal nucleo centrale dell’oggetto che si vuol creare, per scoprire le nuove leggi, cioè le nuove forme che lo legano invisibilmente ma matematicamente all’infinito plastico apparente e all’infinito plastico interiore. La nuova plastica sarà dunque la traduzione nel gesso, nel bronzo, nel vetro, nel legno e in qualsiasi altra materia, dei piani atmosferici che legano e intersecano le cose. Questa visione che io ho chiamato trascendentalismo fisico potrà rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che creano le reciproche influenze formali dei piani degli oggetti. La scultura deve quindi far vivere gli oggetti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio, poiché nessuno può più dubitare che un oggetto finisca dove un altro comincia e non v’è cosa che circondi il nostro corpo: bottiglia, automobile, casa, albero, strada, che non lo tagli e non lo sezioni con un arabesco di curve e di rette. Due sono stati i tentativi di rinnovamento moderno della scultura: uno decorativo per lo stile, l’altro prettamente plastico per la materia. Il primo, anonimo e disordinato, mancava del genio tecnico coordinatore, e, troppo legato alle necessità economiche dell’edilizia, non produsse che pezzi di scultura tradizionale più o meno decorativamente sintetizzati e inquadrati in motivi o sagome architettoniche o decorative. Tutti i palazzi e le case costruite con un criterio di modernità hanno in loro questi tentativi in marmo, in cemento o in placche metalliche. Il secondo, più geniale, disinteressato e poetico, ma troppo isolato e frammentario, manicava di un pensiero sintetico che affermasse una legge. Poiché nell’opera di rinnovamento non basta credere con fervore, ma occorre propugnare e determinare qualche norma che segni una strada. Alludo al genio di Medardo Rosso, a un italiano, al solo grande scultore moderno che abbia tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze d’un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto. Degli altri tre grandi scultori contemporanei, Gonstantin Meunier nulla ha portato di nuovo nella sensibilità scultoria. Le sue statue sono quasi sempre fusioni geniali dell’eroico greco con l’atletica umiltà dello scaricatore, del marinaio, del minatore. La sua concezione plastica e costruttiva della statua e del bassorilievo è ancora quella del Partenone o dell’eroe classico, pur avendo egli per la prima volta tentato di creare e divinizzare soggetti prima di lui disprezzati o lasciati alla bassa riproduzione veristica.
La Bourdelle porta nel blocco scultorio una severità quasi rabbiosa di masse astrattamente architettoniche. Temperamento appassionato, torvo, sincero di cercatore, non sa purtroppo liberarsi da una certa influenza arcaica e da quella anonima di tutti i tagliapietra delle cattedrali gotiche. Rodin è di una agilità spirituale più vasta, che gli permette di andare dall’ impressionismo del Balzac all’incertezza dei Borghesi di Calais e a tutti gli altri peccati michelangioleschi. Egli porta nella sua scultura un’ispirazione inquieta, un impeto lirico grandioso, che sarebbero veramente moderni se Michelangelo e Donatello non li avessero avuti, con le quasi identiche forme, quattrocento anni or sono e se servissero invece ad animare una realtà completamente ricreata. Abbiamo quindi nell’opera di questi tre grandi ingegni tre influenze di periodi diversi: greca in Meunier; gotica in La Bourdelle; della rinascenza italiana in Rodin. L’opera di Medardo Rosso è invece rivoluzionaria, modernissima, più profonda e necessariamente ristretta. In essa non si agitano eroi nè simboli, ma il piano d’una fronte di donna o di bimbo accenna ad una liberazione verso lo spazio, che avrà nella storia dello spirito una importanza ben maggiore di quella che non gli abbia data il nostro tempo. Purtroppo le necessità impressionistiche del tentativo hanno limitato le ricerche di Medardo Rosso ad una specie di alto o bassorilievo, la qual cosa dimostra che la figura è ancora concepita come mondo a sè, con base tradizionale e scopi episodici. La rivoluzione di Medardo Rosso, per quanto importantissima, parte da un concetto troppo esteriormente pittorico, trascura il problema d’una nuova costruzione dei piani e il tocco sensuale del pollice che imita la leggerezza della pennellata impressionista, dà un senso di vivace immediatezza, ma obbliga alla esecuzionè rapida dal vero e toglie all’opera d’arte il suo carattere di creazione universale. Ha quindi gli stessi pregi e difetti dell’impressionismo pittorico, dalle cui ricerche parte la nostra rivoluzione estetica la quale, continuandole, se ne allontana fino all’estremo opposto. La scultura come in pittura non si può rinnovare se non cercando lo stile del movimento, cioè rendendo sistematico e definitivo come sintesi quello che l’impressionismo ha dato come frammentario, accidentale, quindi analitico. E questa sistematizzazione delle vibrazioni delle luci e delle compenetrazioni dei piani produrrà la scultura futurista, il cui fondamento sarà architettonico, non soltanto come costruzione di masse, ma in modo che il blocco scultorio abbia in sè gli elementi architettonici dell’ambiente scultorio in cui vive il soggetto”.
Bibliografia
BOCCIONI, U., Manifesto tecnico della scultura futurista, 1912.
POGGIOLI, R., 1962, Teoria dell’arte d’avanguardia, Biblioteca d’Orfeo; Eng. 1961, The Theory of the Avant-Garde, Harvard University Press.
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “Dinamismo di un giocatore di calcio“, 1911
Nel podcast della scorsa settimana abbiamo scoperto come, nel Manifesto della scultura futurista del 1912, Umberto Boccioni sottolineasse l’importanza di aggiornare lo stato dell’arte della scultura attraverso la resa scultorea del movimento e quindi imitando in scultura la medesima rivoluzione estetica che stava avvenendo in campo pittorico in quegli anni. La scultura futurista deve quindi fissare come leggi assolute i suggerimenti dinamici dell’impressionismo pittorico. Ascoltiamo ora la seconda parte del Manifesto della scultura futurista, dove vengono presentati i lineamenti teorici di quella che Boccioni definisce la “sistematizzazione delle vibrazioni delle luci e delle compenetrazioni dei piani” che contraddistingue lo stile futurista:
“Naturalmente, noi daremo una scultura d’ambiente. Una composizione scultoria futurista avrà in sè i meravigliosi elementi matematici e geometrici che compongono gli oggetti del nostro tempo. E questi oggetti non saranno vicini alla statua come attributi esplicativi o elementi decorativi staccati, ma, seguendo le leggi di una nuova concezione dell’armonia, saranno incastrati nelle linee muscolari di un corpo. Così, dall’ascella di un meccanico potrà uscire la ruota d’un congegno, così la linea di un tavolo potrà tagliare la testa di chi legge, e il libro sezionare col suo ventaglio di pagine lo stomaco del lettore. Tradizionalmente, la statua si intaglia e si delinea sullo sfondo atmosferico dell’ambiente in cui è esposta: la pittura futurista ha superata questa concezione della continuità ritmica delle linee in una figura e dell’isolamento di essa dal fondo e dallo spazio avviluppante invisibile. ‘La poesia futurista — secondo il poeta Marinetti — dopo aver distrutta la metrica tradizionale e creato il verso libero, distrugge ora la sintassi e il periodo latino. La poesia futurista è una corrente spontanea ininterrotta di analogie, ognuna riassunta intuitivamente nel sostantivo essenziale. Dunque, immaginazione senza fili e parole in libertà’. La musica futurista di Balilla Pratella infrange la tirannia cronometrica del ritmo. Perchè mai la scultura dovrebbe rimanere indietro, legata a leggi che nessuno ha il diritto di imporle? Rovesciamo tutto, dunque, e proclamiamo l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente. Proclamiamo che l’ambiente deve far parte del blocco plastico come un mondo a sè e con leggi proprie; che il marciapede può salire sulla vostra tavola e che la vostra testa può attraversare la strada mentre tra una casa e l’altra la vostra lampada allaccia la sua ragnatela di raggi di gesso. Proclamiamo che tutto il mondo apparente deve precipitarsi su di noi, amalgamandosi, creando un’armonia colla sola misura dell’intuizione creativa; che una gamba, un braccio o un oggetto, non avendo importanza se non come elementi del ritmo plastico, possono essere aboliti, non per imitare un frammento greco o romano, ma per ubbidire all’armonia che l’autore vuol creare. Un insieme scultoreo, come un quadro, non può assomigliare che a sè stesso, poiché la figura e le cose devono vivere in arte al di fuori della logica fisionomica. Così una figura può essere vestita in un braccio e nuda nell’altro, e le diverse linee d’un vaso di fiori possono rincorrersi agilmente fra le linee del cappello e quelle del collo. Così dei piani trasparenti, dei vetri, delle lastre di metallo, dei fili, delle luci elettriche esterne o interne potranno indicare i piani, le tendenze, i toni, i semitoni di una nuova realtà. Così una nuova intuitiva colorazione di bianco, di grigio, di nero, può aumentare la forza emotiva dei piani, mentre la nota di un piano colorato accentuerà con violenza il significato astratto del fatto plastico! Ciò che abbiamo detto sulle linee-forze in pittura nella Prefazione-manifesto al catalogo della Esposizione futurista di Parigi nell’Ottobre 1911 può dirsi anche per la scultura, facendo vivere la linea muscolare statica nella linea-forza dinamica. In questa linea muscolare predominerà la linea retta, che è la sola corrispondente alla semplicità interna della sintesi, che noi contrapponiamo al barocchismo esterno dell’analisi. Ma la linea retta non ci condurrà alla imitazione degli egizi, dei primitivi o dei selvaggi, come qualche scultore moderno ha disperatamente tentato, per liberarsi dall’imitazione dello stile greco. La nostra linea retta sarà viva e palpitante; si presterà a tutte le necessità delle infinite espressioni della materia, e la sua nuda severità fondamentale sarà il simbolo dalla severità di acciaio delle linee del macchinario moderno. Possiamo infine affermare che nella scultura l’artista non deve indietreggiare davanti a nessun mezzo pur di ottenere una realtà. Nessuna paura è più stupida di quella che ci fa temere di uscire dall’arte che esercitiamo. Non c’è qui solo pittura, o scultura, o musica, o poesia, c’è creazione! Quindi se una composizione sente il bisogno d’un ritmo speciale di movimento che aiuti o contrasti il ritmo fermato dell’insieme scultorio (necessità dell’opera d’arte) si potrà applicarvi un qualsiasi congegno che possa dare un movimento ritmico adeguato a dei piani o a delle linee. Non possiamo dimenticare che il tic-tac e le sfere in moto di un orologio, che l’entrata o l’uscita di uno stantuffo in un cilindro, che l’aprirsi e il chiudersi di due ruote dentate con l’apparire e lo scomparire continuo dei loro rettangoletti d’acciaio, che la furia di un volante o il turbine di un’elica, sono tutti elementi plastici e pittorici, di cui un’opera scultoria futurista deve valersi. L’aprirsi e il richiudersi di una valvola crea un ritmo altrettanto bello ma infinitamente più nuovo di quello d’una palpebra animale! Quindi il futurismo deve: 1. — Proclamare che la scultura si prefigge la ricostruzione astratta dei piani e dei volumi che determinano le forme, non il loro valore figurativo. 2. — Abolire in scultura come in qualsiasi altra arte e il sublime tradizionale dei soggetti. 3. — Negare alla scultura qualsiasi scopo di ricostruzione episodica veristica, ma affermare la necessità assoluta di servirsi di tutte le realtà per tornare agli elementi essenziali della sensibilità plastica. Quindi percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, fili di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. ecc.
- — Distruggere la nobiltà tutta letteraria e tradizionale del marmo e del bronzo. Negare l’esclusività di una materia per la intera costruzione d’un insieme scultorio. Affermare che anche venti materie diverse possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Ne enumeriamo alcune: vetro, legno cartone, ferro, cemento, crine, cuoio, stoffa, specchi, luce elettrica, ecc. ecc. 5. — Proclamare che nell’intersecazione dei piani di un libro con gli angoli d’una tavola, nelle rette di un fiammifero, nel telaio di una finestra, v’è più verità che in tutti i grovigli di muscoli, in tutti i seni e in tutte le natiche di eroi o di veneri che ispirano la moderna idiozia scultoria.
- — Che solo una modernissima scelta di soggetti potrà portare alla scoperta di nuove idee plastiche. 7. — Che la linea retta è il solo mezzo che possa condurre alla verginità primitiva di una nuova costruzione architettonica delle masse o zone scultorie. 8. — Che non vi può essere rinnovamento se non attraverso la scultura d’ambiente, perchè con essa la plastica si svilupperà, prolungandosi nello spazio per modellarlo. Quindi da oggi anche la creta potrà modellare l’atmosfera che circonda le cose. 9. La cosa che si crea non è che il ponte tra l’infinito plastico esteriore e l’infinito plastico interiore, quindi gli oggetti non finiscono mai e si intersecano con infinite combinazioni di simpatia e urti di avversione. 10. — Bisogna distruggere il nudo sistematico; il concetto tradizionale della statua e del monumento! 11. — Rifiutare coraggiosamente qualsiasi lavoro, a qualsiasi prezzo, che non abbia in sè una pura costruzione di elementi plastici completamente rinnovati.” (Boccioni, Manifesto della scultura futurista).
È dunque esattamente nella compenetrazione e nella tensione fra i due estremi estetici della creazione artistica futurista, quelli che Boccioni definisce “infinito plastico esteriore” e “infinito plastico interiore”, che si apre lo spazio di creazione dell’opera d’arte d’avanguardia, come posta in gioco di quella rivoluzione artistica nel novecento che investe tutte le forme d’arte contemporanea. Nell’arte di Umberto Boccioni, la scultura rappresenta il campo di prova della soliditá delle teorie futuriste sul movimento e il luogo in cui questa rivoluzione onnipervasiva futurista prende letteralmente corpo e materia. Alla fine del 1913, Boccioni completa infatti quello che è considerato il suo capolavoro scultoreo (era anche la copertina del podcast della scorsa settimana): Forme uniche della continuità nello spazio, fatto in cera. Il suo obiettivo per l’opera era quello di rappresentare una ‘continuità sintetica’ del movimento, diversa dalla ‘discontinuità analitica’ che vedeva in artisti Marcel Duchamp. Questa scultura è stata oggetto di ampi commenti, e nel 1998 è stata scelta come immagine da incidere sul retro della moneta italiana da 20 centesimi di euro. La celebrazione futurista del ritmo veloce e della potenza meccanica del mondo moderno è qui enfatizzata nel dinamismo e nell’energia della scultura. La silhouette marciante della figura appare deformata dal vento e dalla velocità, mentre i suoi lucidi contorni metallici alludono ai macchinari. La giornalista Laura Cummings scrive sull’opera di Boccioni: “Volatile e intenso, Umberto Boccioni è stato il più vicino a realizzare la visione futurista di un’utopia dell’era delle macchine. Boccioni mirava all’impossibile: voleva fissare visivamente il flusso incessante della vita – il movimento delle folle, l’impeto degli aerei, il pullulare del rumore e del trambusto e della velocità quotidiana, dei treni e delle automobili che percorrono il paesaggio. Un piccolo ciclista sfreccia sulla sua bicicletta disegnata a penna, il naso all’ingiù, i raggi della ruota posteriore che si trasformano in una nuvola di niente per indicare il movimento frenetico. Velocità, vitalità, movimento dinamico: queste ossessioni futuriste sono anche tra i maggiori problemi dell’arte moderna. Come rappresentare il movimento vorticoso in fermo immagine, senza una macchina fotografica? Come far danzare i ballerini? Come dipingere l’esperienza di correre lungo i viali della propria Fiat senza rappresentare semplicemente l’auto? Boccioni ha dipinto molti treni nella sua breve vita, tutti tendenti a concentrarsi su una targa circondata da un vortice di archi di sfregamento. Ma soprattutto c’è il capolavoro riconosciuto di Boccioni, Forme uniche di continuità nello spazio, quella magnifica figura che cammina in avanti come attraverso una tempesta, la carne che si agita come i vestiti in una tempesta, i muscoli fluttuanti, il torso premuto su sé stesso, compresso, colpito, dal puro incontro di slancio e gravità… un uomo che sembra generare nuove configurazioni di sé stesso mentre cammina nel fuoco, o arranca nei torrenti, lasciando tracce del corpo in movimento.” (Cummings, Impossible dreams of a speed freak). È importante ricordare che Umberto Boccioni decide di fare lo scultore dopo aver visitato vari studi a Parigi, nel 1912, tra cui quelli di Georges Braque, Constantin Brâncuși, Raymond Duchamp-Villon e probabilmente, anche quello di Medardo Rosso.
La pittura di Boccioni segue le stesse linee estetiche della sua scultura. Sebbene si fosse formato alla fine del 1800 con gli insegnamenti di Giacomo Balla e del divisionismo francese, il Boccioni pittore negli anni ’10 del novecento inizia a studiare lo stile impressionista, quello post-impressionista, e quello cubista. “Solo quando Boccioni, Balla, Severini e alcuni altri futuristi si recarono a Parigi verso la fine del 1911 e videro ciò che Braque e Picasso avevano fatto, il movimento cominciò a prendere realmente forma.” (Kimmelman). Boccioni lavora per quasi un anno sull’enorme dipinto La città sale del 1910, che è considerato il suo punto di svolta nel Futurismo: “Ho tentato una grande sintesi di lavoro, luce e movimento” scrive ad un amico. Benché influenzato dal cubismo cui rimproverò l’eccessiva staticità, Boccioni evita nei suoi dipinti le linee rette e adopera colori complementari. In quadri come Dinamismo di un giocatore di calcio, del 1911, (che é la copertina del podcast di oggi) e in Dinamismo di un ciclista, del 1913, Umberto Boccioni riesce nella raffigurazione di uno stesso soggetto in stadi successivi nel tempo ecosí suggerisce efficacemente l’idea dello spostamento nello spazio. Tra le opere pittoriche più rilevanti di Boccioni si ricordano anche quello conosciuto come gli Stati d’animo, in cui i moti dell’animo sono espressi attraverso lampi di luce, spirali e linee ondulate disposte diagonalmente e il dipinto dal titolo Forze di una strada (1911), dove la città, quasi organismo vivo, ha un peso preponderante rispetto alle presenze umane. Ma il suo capolavoro indiscusso é forse quello dal titolo Materia, di cui parleremo la prossima settimana, nell’ultimo podcast sul genio di Umberto Boccioni.
Bibliografia
BOCCIONI, U., Manifesto tecnico della scultura futurista, 1912.
CUMMINGS, L., Impossible dreams of a speed freak, 17 Gennaio 2009, The Guardian.
KIMMELMAN, M., Out of the Past. The Spirit of Futurism, 3 Novembre 1989, The New York Times.
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “Stati d’Animo, gli Addii“, 1911
Il 14 marzo 1907, Umberto Boccioni annotava sul suo diario di appunti, poi pubblicato con il nome di Taccuini Futuristi: “Voglio del nuovo, dell’espressivo, del formidabile! Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo, che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! ….Mi sembra che oggi mentre l’analisi scientifica ci fa vedere meravigliosamente l’universo, l’arte debba farsi interprete del risorgere poderoso, fatale d’un nuovo idealismo positivo. Mi sembra che l’arte e gli artisti siano oggi in conflitto con la scienza… Le vie, le linee, le persone, i sentimenti sentono di ieri con l’aggravante, dell’odore indefinibile dell’oggi. Noi viviamo in un sogno storico”. Il 7 luglio dello stesso anno, Boccioni ragiona sulla mancanza di universalitá dell’arte moderna: “Sempre più mi accorgo che il difetto organico dell’Arte Moderna è la mancanza di universalità o almeno così chiamo io quel senso di poesia che domina le opere antiche e che fa sì che il canto dell’artista si allarghi sempre con amorosa esaltazione su tutto il creato. L’enorme analisi che il nostro secolo ha fatto ci ha rinnovati creando degli specialisti. Ciò spiega la mancanza d’universalità dell’opera moderna. Credo occorra una mente immensa che abbia il coraggio e la forza di sintetizzare la sapienza moderna e creare la vera opera. In ultimo poi penso che le difficoltà non sono per noi maggiori di quelle che trovavano gli antichi. Ci vuole fede e ingegno il che vuol dire dare un calcio a tutto e tornare ad innalzarsi”. E ancora, a Settembre, Boccioni rivendica il diritto dell’arte a trasformarsi: “L’Arte non è finita come i sentimentali vaporosi gridano; si trasforma. L’umanità cammina e cambia profondamente come l’uomo dal fanciullo. Un uomo di genio s’intende, e l’umanità è un genio universale divino. Ora il gran cuore e la gran mente dell’umanità va verso una virilità che è fatta di precisione e di esattezza e di positivismo. È la poesia della retta e del calcolo. Tutto diventa rettangolare, quadrato, pentagonale, ecc. In tutte le funzioni della vita riscontro questo. Mi sembra che tutto vada o verso il decisamente finito o l’infinito. Mezzi termini o nebbie non appagano più. Forse questo è sempre stato ma per questo oggi v’è tanta materia, credo, di poesia quanto nei tempi andati. La forma cambia e gli artisti ricevendo in retaggio la religione della forma sono divenuti dei ridicoli conservatori. Il mondo ricomincia una nuova era e vuole della sostanza. In altre parole l’Arte deve divenire una funzione della vita e non tenersi da parte sdegnosa. Una prova che gli artisti non hanno seguito il processo di trasformazione sta in questo, che mentre gli scienziati studiano e creano palpitando con l’anima universale che li circonda, gli artisti creano cose morte, e d’un linguaggio sconosciuto non solo ai più ma anche ai pochi. È impossibile che l’era dell’arte sia finita e che sia cominciata quella della scienza. Che l’umanità non abbia più bisogno di canto. C’è sempre un’infinita gioia e un infinito dolore che ride e piange. Quale sarà la formula che darà l’ispirazione umana? Non è essa sempre la stessa? Con quali mezzi? Questo è il problema! Oggi pensavo con gioia e spiegavo la mia avversione a tutto quello che in arte si manifesta nebbioso e disordinato. Mi sembra che il mio temperamento fatto di precisione e di scrupolo sia più concorde con la poesia matematica e d’acciaio dell’umanità d’oggi. Sento nel mio lavoro il bisogno della geometria; di rendermi conto; di calcolare; di presentare un insieme magari rigido ma ordinato e limpido.” Le sperimentazioni artistiche in campo scultoreo e pittorico di Boccioni sono il risultato di queste inquietudini e di queste preoccupazioni sull’universalitá dell’arte contemporanea. Il critico d’arte Michael Glover commenta che : “Il dono di Boccioni è stato quello di portare un occhio fresco sulla realtà in modi che, riconosciamo ora, hanno definito la natura del movimento moderno nelle arti visive e anche nella letteratura”. Nel 1912 Boccioni inaugura un periodo di intensi studi sia in vista della pubblicazione del suo testo teorico più importante, Pittura e scultura futuriste (1914), pensando alla realizzazione del capolavoro Materia (1912). In particolare, approfondisce la conoscenza del pensiero del filosofo francese Henri Bergson, leggendo il libro Materia e memoria (1896). Le teorie di Bergson sulla memoria spontanea, intesa come intuizione dell’unità fondamentale della materia, suggeriscono a Boccioni l’idea della compenetrazione dei piani come “simultaneità dell’interno con l’esterno + ricordo + sensazione”, consentendogli di unire nel corso del processo creativo ricordi personali (familiari, per esempio) a suggestioni derivanti dall’arte antica o primitiva, alla scomposizione delle forme di derivazione cubista. Nel 1914 Boccioni pubblica il suo capolavoro teorico, dal titolo Pittura e scultura futurista, con il sottotitolo di “Dinamismo plastico”. In questo testo, infatti Umberto Boccioni esplora le leggi interne della plasticità, il significato plastico del mondo e il suo peculiare dinamismo, prendendo anche chiaramente posizione rispetto all’impressionismo e al cubismo. Eccone uno stralcio: “Noi possiamo studiare — cioè amare — una macchina, una rotativa qualsiasi e servirci dei suoi piani, dei suoi profili, delle sue cavità, dei suoi moti come di elementi naturali per la costruzione del nostro paesaggio. Alberi e rami non sono forse le parti di un meccanismo primordiale? Tutto è bellezza naturale e non per l’apparenza esteriore, ma per i suoi astratti significati plastici. … Un quadro, come un insieme scultoreo come un poema, sono oggi sviluppati nel loro oggetto, non in superficie di esecuzione ma in profondità d’interpretazione. L’artista con ciò è salito alla sintesi estrema, al fenomeno plastico puro. … Nel quadro impressionista incomincia lo sforzo verso la nuova unità plastica di cui ho parlato, che doveva segnare il principio di un progresso il quale dura tuttora e condurrà ad un nuovo sublime definitivo, più astratto di quello greco o cristiano. Con gli impressionisti, le pietre, le piante, gli animali, cominciano a cambiare forma e soprattutto colore. E, quello che è importante, cominciano a perdere il loro valore sentimentale d’immagine. Si crea così il motivo impressionista. Per quanto timidamente, le cose diventano già il nucleo di un ambiente circostante, e questo ambiente è una vibrazione atmosferica che comincia a divenire plasmabile. Essi perdono è vero con ciò una dimensione: la profondità, ma hanno per sempre conquistato e creato un nuovo corpo: l’atmosfera. Per la prima volta un oggetto vive e si completa con l’ambiente dando e ricevendone le influenze. Per la prima volta si vede sulla guancia fino ad ora rosea, l’accidentalità verde del prato sul quale ci troviamo, e sul nostro vestito si vede il rosso del canapè sul quale siamo seduti…Quello che noi pittori e scultori futuristi vogliamo invece, è un opposto che si fonda sulle loro basi. É cioè la ripresa e la continuazione logica delle ricerche impressioniste prima della loro involuzione e decadenza… Prima di tutto, mentre il carattere degli Impressionisti fu la preoccupazione della luce e del colore, dando le forme come degli abbozzi dinamici, carattere nostro è la preoccupazione di dare stile alla luce e al colore impressionista e di creare perciò una forma definitivamente connaturata al colore. Ma sarebbe poco, se noi ci arrestassimo ad una semplice analisi di forme come gli impressionisti e i neo-impressionisti si fermarono ad una analisi di colore. Noi facciamo una sintesi dei risultati delle ricerche di colore e di forma. Ma questa sintesi non ci conduce di nuovo alle immagini statiche e successive (questo è fondamentale per noi) come avviene per i nostri amici di Francia, cubisti od altro, ma ci porta a ridare la realtà nella sua essenziale manifestazione. Prima cioè che questa realtà si individualizzi in una distinzione tradizionale degli elementi naturali (distinzione che suscita sempre in noi un mondo di immagini sentimentali dannose alla plastica pura) noi vogliamo dare la vita della materia traducendola nei suoi moti. Ma anche questo è un ponte verso la nostra pittura… É facile dunque comprendere come noi che dobbiamo le nostre origini all’ impressionismo ci troviamo invece agli antipodi di esso. Infatti noi vogliamo universalizzare l’accidentale… Quindi, in luogo dell’accidente fissato, noi diamo l’accidentalità definita in una forma che è la sua legge di successione. Mentre gli impressionisti dipingono un quadro per dare un momento particolare, e subordinano la vita del quadro alla sua somiglianza con questo momento, noi sintetizziamo ogni momento (tempo, luogo, forma, colore-tono) e così dipingiamo il quadro. Tutto è da rifare spiritualmente, quindi esteticamente…Constatiamo che l’aspirazione plastica che guida noi Futuristi Italiani è per lo meno di un secolo in anticipo sulla sensibilità artistica italiana…. Bisogna mutilare i rami vecchi e inutili. Procedere nudi e feroci e guardare in avanti fino allo scoppio delle pupille…Torniamo dunque a concetti-plastici generali, ma conservando tutto il nostro orrore, il nostro odio per i concetti plastici che diressero la pittura antica. Quindi facciamo una reazione violenta all’ impressionismo e proclamiamo l’avvento di un nuovo ordine plastico, di una nuova gradazione di valori costruttivi. Ma nessuna affinità ci fa simpatizzare con gli ordini gerarchici tradizionali, come avviene in alcuni cubisti fino allo smarrimento della verità. Noi vogliamo che il quadro torni ad imperare indipendente, usando di una legge di forza che scaturisce dalla potenza di moto dell’oggetto e che il tempo e le ricerche degli artisti futuristi definiranno maggiormente…. Cosí raggiungiamo l’eternitá dell’impressione. E perciò noi futuristi propugnamo il quadro, quindi la composizione, e la legge, quindi l’ordine e la scala nei valori plastici. Ma per noi il quadro non è quello che esaminerò nei cubisti; non è l’enumerazione analitica di Picasso o di Bra- que, ma è la vita stessa intuita nelle sue trasformazioni dentro l’oggetto e non al di fuori… Quello che noi vogliamo dare è l’oggetto vissuto nel suo divenire dinamico , cioè dare la sintesi delle trasformazioni che l’oggetto subisce nei suoi due moti: relativo e assoluto. Il nostro idealismo plastico costruttivo trae le sue leggi dalle nuove certezze dateci dalla scienza. Esso vive di puri elementi plastici ed è illuminato dall’ intuizione di una ultra- sensibilità sórta con le nuovissime condizioni di vita createci dalle scoperte scientifiche, dalla rapidità della vita moderna in tutte le sue manifestazioni e dalla simultaneità di forze e di stati d’animo che ne risulta. (Boccioni, Pittura e scultura futurista). A partire dai lineamenti teorici espressi in questo testo, Boccioni attua uno spostamento nella sua ricercar estetica per mezzo d’arte: il graduale scivolamento dalla sua esplorazione del dinamismo ad un’ulteriore decomposizione del soggetto del quadro per mezzo del colore. Il capolavoro di Boccioni in questa direzione é l’olio su tela dal titolo Materia, del 1912, di cui parleremo nel podcast della prossima settimana.
Bibliografia
BOCCIONI, U., 1912, Manifesto tecnico della scultura futurista.
BOCCIONI, U., 1914, Pittura e scultura futuriste, SE, Milano 1997.
BOCCIONI, U., Taccuini Futuristi, mancosu editore, 2008.
GLOVER, M., The drawing and sculpture of Umberto Boccioni, 27 Gennaio 2009, The Independent.
Immagine della puntata: Umberto Boccioni, “Materia“, 1912
La copertina del nostro podcast di oggi mostra uno dei capolavori di Umberto Boccioni. Certamente questo olio su tela del 1912, dal titolo Materia, é una fra le opere dell’artista che maggiormente riesce a tradurre in arte i lineamenti teorici che lui esprimeva nel testo Pittura e scultura futuriste, e a rappresentare in modo esemplare quella eternitá dell’impressione plastica che sintetizzava impressionismo e cubismo superandoli, e che fu desiderata per tutta la vita da Boccioni come fine ultimo dell’opera d’arte futurista. In questo dipinto Umberto Boccioni esegue un ritratto di sua madre Cecilia Forlani, che appare come divinizzata, nei panni della Grande Madre di epoca arcaica. Qui Boccioni integra la scomposizione cubista con l’uso dei colori complementari di derivazione impressionista. La studiosa Laura Cummings commenta: “Un ritratto della madre dell’artista è cubismo puro, tutto angoli fratturati e punti di vista multipli, tranne un alone di segni radiali che le circonda la testa. È viva, si muove, sta accadendo ora!”. E ancora, la critica d’arte Grace Glueck scrive: “Tra i ritratti delle madri degli artisti, pochi sono così complicati come Materia, un’immagine molto grande della madre del pittore-scultore futurista Umberto Boccioni. È seduta alla finestra di un appartamento a Milano, una donna consumata dal lavoro con enormi mani nodose che sono messe in risalto frontalmente, piegate in grembo. La sua posa è un riflesso ironico della Madonna rinascimentale con lo sfondo di un paesaggio tranquillo. Ma il quadro non è affatto di facile lettura. Il concetto futurista di simultaneità – una visione che fonde gli eventi raffigurando fasi successive di movimento in una sola immagine – porta l’attività della strada sottostante direttamente nella stanza: un uomo che cammina, un cavallo che trotta. Dettagli di edifici adiacenti, come le ciminiere di una vicina centrale elettrica, la porta di un mulino di recente costruzione e un mélange di tetti e ciminiere, sembrano occupare la stanza. Inoltre, il viso e i capelli della donna sono spezzati in uno stile distintamente cubista, come nei ritratti di Picasso del 1909 della sua amante Fernande Olivier, e l’effetto dirompente è rafforzato da fasci di luce fortemente delineati che entrano dalla finestra. Il colore intenso satura il dipinto, con i verdi e gli arancioni predominanti, ma si stratificano e si fondono confusamente l’uno nell’altro, in accordo con le idee divisioniste (adottate dai futuristi) sul “disordine intuitivo’” che regna nell’universo. Boccioni, il vero intellettuale dell’arte futurista, scelse il nome Materia, derivato dalla parola latina mater, madre, ma esteso a significare la materia dell’universo. Lo stesso termine fu usato dal filosofo francese Henri Bergson nel suo trattato del 1896, Materia e memoria: saggio sulla relazione fra corpo e spirito.” Un’altra descrizione illuminante del quadro è quella di Jim Long: “Il Futurismo è ciò che spesso viene in mente quando si cerca di immaginare la pittura moderna: un derby di demolizione di figure e forme, piani e colori, strisce di testo e notazioni musicali, ciminiere, edifici tagliati, treni veloci e automobili. Per Boccioni la combinazione di cubismo e divisionismo sarebbe stata un matrimonio brillante. Materia è un capolavoro brillante, strano e ansimante che cresceva in dimensioni man mano che Boccioni lo dipingeva. È sua madre, ma il dipinto inizia come una eco della “Madonna in trono” di Masaccio (1426). Boccioni procede poi a creare la Grande Dea Madre: divoratrice, guardiana degli inferi, Mata, Kali. Le montagne fanno il loro tempo, creano i loro fulmini e le loro tempeste. Materia è una tale montagna. I fulmini giocano sulla cima, generati nella stretta di braccia potenti e avvolgenti; l’eterno contenitore di fuoco, il tempio nascosto. Boccioni si ispira a Bergson e alla sua nozione di “élan vital” (slancio vitale), per portare lo spettatore ‘al centro’ della sua pittura. Il fulcro centrale del dipinto Materia sono le enormi mani della madre, chiuse, a riposo. Sembra esausta, eppure creste di elettricità corrono dalle sue unghie dei pollici su per le braccia massicce, sfuggendo in un’aurora di luci che circondano la sua testa e il suo corpo che si ritirano. Le pieghe dei vestiti si fondono con la struttura in ferro del balcone dove è seduta.
Dietro ci sono le ciminiere svolazzanti e le forme compenetranti della città, tirate in primo piano nel quadro da effetti di riflessione: Boccioni la sta guardando attraverso una finestra, dall’interno. I rossi, i neri, i verdi, i gialli e i blu brillano come la fornace di un’acciaieria. Il quadro diventa un’opera di alchimia. Il fantasma rosso di un cavallo galoppa sul ginocchio sinistro della figura, uno strano ricordo della morte del pittore, e un’altra figura fantasma rossa, un riflesso di una figura sulla strada sottostante, cammina sul ginocchio destro nella direzione opposta. L’anno successivo questa figura diventerà scultura nell’opera di Boccioni Forme uniche di continuità nello spazio. Boccioni riprende il tema di Matisse della fusione dello spazio esterno e interno in La strada entra in casa, un dipinto del 1911 che misura un metro quadrato. È un dipinto di un caos appena controllato. Milano non era Roma o Firenze, inviolate nella loro gloria passata. Milano era industriale, e si stava espandendo rapidamente. Come per Courbet e Pissarro, l’operaio stava entrando nel soggetto della pittura. In una foto ingrandita di una prima versione in gesso della scultura Forme uniche di continuità nello spazio (ora andata distrutta), si può vedere che Boccioni ha rapidamente superato l’approccio “flip-book” duchampiano alla creazione del movimento attraverso molteplici viste parziali di braccia, gambe e corpi, e ha adottato una soluzione stilistica “dinamica” al problema. Le forme dall’aspetto acquatico attaccate alla versione in bronzo del soggetto, alta quarantotto pollici, sono un tentativo di suggerire il disturbo dello spazio/tempo mentre la figura muta attraverso l’atto del movimento. Il Futurismo privato di Boccioni era un atto di percezione accentuata, un equivalente visivo della ‘persistenza della visione’, una specie di cinema stroboscopico. Una volta che il Futurismo ha abbracciato il Cubismo, è apparso ovunque nello stesso momento, nel 1911, a New York come Sincronismo, a Londra come Vorticismo, a Mosca come cubo-futurismo, a Parigi come Orfismo. Con il progredire del secolo, si affievolì, evolvendo in altri movimenti. Eppure l’astrazione modernista persiste nella nostra psiche culturale”. Queste parole di Jim Long lasciano intravedere la potente gittata del futurismo, e soprattutto del peculiare futurismo ibrido di Boccioni nelle sue complesse contaminazioni con il cubismo, su tutta l’arte modernista. L’influenza del futurismo su tutta l’arte contemporanea resta innegabile. Scrive ancora Long: “…il metodo dei cubisti per afferrare un oggetto è quello di girargli intorno; i futuristi dichiaravano che bisognava entrarci dentro”. I dipinti La cittá che sale (1911) e Elasticità (1912) di Boccioni mostrano la sua maestria con il pennello, la manipolazione del colore e della linea impressionante quanto le sue sperimentazioni scultoree. Nel primo, è come se si fosse aperta una grande fessura. Figure di lavoratori saltano dalle fiamme e la testa di un cavallo rosso si erge in primo piano, ricordando l’ipnotico destriero di Picasso da Guernica, il suo inno alle devastazioni della guerra. Elasticitá è un lavoro turbolento che raggiunge la sua potenza dal vortice astratto di colore e forma”. Il grande critico italiano d’arte pittorica, Roberto Longhi, scriveva su Boccioni: “Vi posso assicurare che di grandi scultori non ne abbiamo avuti molti; ma alcuni grandissimi. Sono Giovanni Pisano, Giotto, Jacopo della Quercia, Antonio Rizzo, Michelangelo. Eppoi di grande tradizione scultoria, di grande stile più nulla. Bisogna dunque cercare tutti i modi – dalla impersonalità storica più irreprensibile ai pugni alle bastonate – per far comprendere a chi spetta di comprendere, in Italia, che a quella schiera magica va aggiunto al più presto, subito, il nome di Boccioni – questo grande scultore.” In I pittori futuristi, un articolo uscito nel 1913 sulla rivista La Voce, Longhi sottolinea la contrapposizione tra futurismo e cubismo. In merito all’opera di Boccioni dal titolo “Scomposizione di figure a tavola”, Longhi ricoosce che “è alla luce che è dato il potere integro di porre in moto la materia, poiché uno spigolo del bicchiere colpito da un raggio si slancia in una tremenda e indefinita envolée. Dallo studio dei piani superficiali del cubismo, per non raggelare la materia anzi per scatenarla, egli è venuto a concepirla come un sovrapporsi di piani che si sfogliano, che si smallano come intorno a un compatto nucleo centrale: ed è il moto rotatorio impresso a questo nucleo che gli fa scartocciare la forma all’esterno come Saturno libera da sé gli anelli”. Longhi, in altre parole, rileva come una delle caratteristiche in grado di conferire il movimento all’opera dei futuristi sia la sovrapposizione dei piani, elemento assente nella pittura cubista: si tratta, in qualche modo, della contrapposizione tra superficie e profondità: “immaginiamo […] che il pubblico lettore, snebbiati gradualmente i pregiudizi e i precetti (soprattutto quelli della fallita estetica nazionale) che l’han tenuto lontano dalla pittura pura, sia disposto finalmente a non cercare nel quadro un qualche motivo estrapittorico: ideali di ogni calibro, letteratura, interpretazione di interiorità psicologica e bellezza sensuale. Immaginiamolo per poter entrare subito in argomento e parlare pittoricamente dei pittori futuristi”. La concezione longhiana dell’arte come ‘pura forma’ gli fa riconoscere nei pittori futuristi una grande potenza innovativa nella narrazione dei valori formali. Questa é di certo la più significativa espressione per descrivere il dono che l’avanguardia futurista fa all’arte del Novecento: una nuova narrazione delle forme. Un’impronta lasciata con particolare profonditá nello spazio di questa narrazione é quella dell’arte del genio pittorico e scultoreo Umberto Boccioni.
Bibliografia
BOCCIONI, U., (1914) Pittura e scultura futuriste, SE, Milano 1997.
CUMMINGS, L., Impossible dreams of a speed freak, The Guardian, 17 Gennaio 2009.
GLUECK, G., Blurring the Line Between the Present and the Future, Art Review, 2004.
LONG, J., Boccioni’s Materia. A Futurist Masterpiece and the Avant-garde in Milan and Paris, The Brooklyn Rail, 2004.
LONGHI, R., I pittori futuristi, 1913, La Voce.
LONGHI, R., Boccioni e il futurismo, Abscondita, 2016.
Immagine della puntata: Carlo Carrà, “I funerali dell’anarchico Galli“, 1911
L’11 agosto del 1913, un nuovo manifesto entra nella scena vivace e prolifica dell’avanguardia futurista. Ne è autore l’artista Carlo Carrà e il titolo è La pittura dei suoni, rumori e odori. “Prima del 19° secolo, la pittura fu l’arte del silenzio. I pittori dell’antichità, del Rinascimento, del Seicento e del Settecento non intuirono mai la possibilità di rendere pittoricamente i suoni, i rumori, e gli odori, nemmeno quando scelsero a tema delle loro composizioni fiori, mari in burrasca e cieli in tempesta. Gl’impressionisti, nella loro audace rivoluzione fecero qualche confuso e timido tentativo di suoni, e rumori pittorici. Prima di loro, nulla, assolutamente nulla! Però dichiariamo subito che dal brulichìo impressionista alla nostra pittura futurista dei suoni, rumori e odori c’è un’enorme differenza, come fra un brumoso mattino invernale e un torrido e scoppiante meriggio d’estate, o, meglio ancora, come fra i primi accenni della gravidanza e l’uomo nel pieno sviluppo delle sue forze. Nelle loro tele i suoni e i rumori sono espressi in modo così tenue e sbiadito come se fossero stati percepiti dal timpano di un sordo. Non è il caso di fare qui una disamina particolareggiata dei principii e delle ricerche deg’impressionisti. Non è il caso d’indagare minuziosamente tutte le ragioni per le quali i pittori impressionisti non giunsero alla pittura dei suoni, dei rumori e degli odori. Diremo soltanto che essi, per ottenere questo risultato avrebbero dovuto distruggere: 1. Il volgarissimo trompe-l’œil prospettico, giochetto degno tutt’al più di un accademico, tipo Leonardo, o di un balordo scenografo per melodrammi veristi. 2. Il concetto dell’armonia coloristica, concetto e difetto caratteristico dei Francesi, che li costringe fatalmente nel grazioso, nel genere Watteau, e perciò nell’abuso del celestino, del verdino, del violettino e del roseo. Abbiamo già detto più volte quanto disprezziamo questa tendenza al femminile, al soave, al tenero. 3. L’idealismo contemplativo, che io ho definito mimetismo sentimentale della natura apparente. Questo idealismo contemplativo contamina le costruzioni pittoriche degl’impressionisti, come contaminava già quelle dei loro precedessori Corot e Delacroix. 4. L’aneddoto e il particolarismo che (pure essendo, come reazione, un antidoto alla falsa costruzione accademica) li trascina quasi sempre nella fotografia. Quanto ai post– e neo-impressionisti, come Matisse, Signac e Seurat, noi constatiamo che, ben lungi dall’intuire il problema e dall’affrontare le difficoltà del suono e del rumore e dell’odore in pittura, essi preferirono rinculare nella statica, pur di ottenere una maggior sintesi di forma e di colore (Matisse) e una sistematica applicazione della luce (Seurat, Signac). Noi futuristi affermiamo dunque che portando nella pittura l’elemento suono, l’elemento rumore e l’elemento odore tracciamo nuove strade. Abbiamo già creato negli artisti l’amore per la vita moderna essenzialmente dinamica, sonora rumorosa e odorante, distruggendo la stupida manìa del solenne, del togato, del sereno, dell’ieratico, del mummificato, dell’intellettuale, insomma. L’IMMAGINAZIONE SENZA FILI, LE PAROLE IN LIBERTÀ, L’USO SISTEMATICO DELLE ONOMATOPEE. LA MUSICA ANTIGRAZIOSA SENZAQUADRATURA RITMICA E L’ARTE DEI RUMORI sono scaturiti dalla stessa sensibilità che ha generato la pittura dei suoni, dei rumori e degli odori. È indiscutibile che: 1. il silenzio è statico e che i suoni, rumori e odori sono dinamici; 2. suoni, rumori e odori non sono altro che diverse forme e intensità di vibrazione; 3. qualsiasi succedersi di suoni, rumori odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori. Bisogna dunque misurare queste intensità e intuire questo arabesco. LA PITTURA DEI SUONI, DEI RUMORI E DEGLI ODORI NEGA: 1. Tutti i colori in sordina, anche quelli ottenuti direttamente, senza il sussidio trucchistico delle pàtine e delle velature. 2. Il senso tutto banale del velluto, della sete delle carni troppo umane, troppo fini, troppo morbide e dei fiori troppo pallidi e avvizziti. 3. I grigi, i bruni, e tutti i colori fangosi. 4. L’uso dell’orizzontale pura, della verticale pura e di tutte le linee morte. 5. L’angolo retto, che chiamiamo apassionale. 6. Il cubo, la piramide e tutte le forme statiche. 7. L’unità di tempo e di luogo. LA PITTURA DEI SUONI, DEI RUMORI E DEGLI ODORI VUOLE: 1. I rossi, rooooosssssi roooooosssissssimi che griiiiiiidano. 2. I verdi i non mai abbastanza verdi, veeeeeerdiiiiiissssssimi, che striiiiiidono; i gialli non mai abbastanza scoppianti; i gialloni-polenta; i gialli-zafferano i gialli-ottoni. 3. Tutti i colori della velocità, della gioia, della baldoria, del carnevale più fantastico, dei fuochi di artifizio, dei café-chantants e dei music-halls, tutti i colori in movimento sentiti nel tempo e non nello spazio. 4. L’arabesco dinamico come l’unica realtà creata dall’artista nel fondo della sua sensibilità. 5. L’urto di tutti gli angoli acuti, che già chiamammo gli angoli della volontà; 6. Le linee oblique che cadono sull’animo dell’osservatore come tante saette dal cielo, e le linee di profondità. 7. La sfera, l’ellissi che turbina, il cono rovesciato, la spirale e tutte le forme dinamiche che la potenza infinita del genio dell’artista saprà scoprire. 8. La prospettiva ottenuta non come oggettivismo di distanza ma come compenetrazione soggettiva di forme velate o dure, morbide o taglienti. 9. Come soggetto universale e sola ragione d’essere del quadro, la significazione della sua costruzione dinamica (insieme architetturale polifonico). Quando si parla di architettura si pensa a qualche cosa di statico. Ciò è falso. Noi pensiamo invece a una architettura simile all’architettura dinamica musicale resa dal musicista futurista Pratella. Architettura in movimento delle nuvole, dei fumi nel vento, e delle costruzioni metalliche quando sono sentite in uno stato d’animo violento e caotico. 10. Il cono rovesciato (forma naturale dell’esplosione), il cilindro obliquo e il cono obliquo. 11. L’urto di due coni per gli apici (forma naturale della tromba marina) coni flettili o formati da linee curve (salti di clown, danzatrici); 12. La linea a zig-zag e la linea ondulata. 13. Le curve elissoidi considerate come rette in movimento; 14. Le linee, i volumi e le luci considerati come trascendentalismo plastico, cioè secondo il loro caratteristico grado d’incurvazione o di obliquità, determinato dallo stato d’animo del pittore. 15. Gli echi di linee e volumi in movimento. 16. Il complementarismo plastico (nella forma e nel colore) basato sulla legge dei contrasti equivalenti e sull’urto dei colori più opposti dell’iride. Questo complementarismo è costituito da uno squilibrio di forme (perciò costrette a muoversi). Conseguente distruzione dei pendants di volumi. Bisogna negare questi pendants di volumi, poiché simili a due grucce non permettono che un solo movimento avanti e indietro e non quello totale, chiamato da noi espansione sferica nello spazio. 17. La continuità e la simultaneità delle trascendenze plastiche del regno minerale, del regno vegetale, del regno animale e del regno meccanico. 18. Gl’insiemi plastici astratti, cioè rispondenti non alle visioni ma alle sensazioni nate dai suoni, dai rumori, dagli odori, e da tutte le forze sconosciute che ci avvolgono. Questi insiemi plastici, polifonici e poliritmici astratti risponderanno a necessità di disarmonie interne che noi, pittori futuristi, crediamo indispensabili alla sensibilità pittorica. Questi insiemi plastici sono, per il loro fascino misterioso, più suggestivi di quelli creati dal senso visivo e dal senso tattile, perchè più vicini al nostro spirito plastico puro. Noi pittori futuristi affermiamo che i suoni, i rumori e gli odori si incorporano nell’espressione delle linee, dei volumi e dei colori, come le linee, i volumi e i colori s’incorporano nell’architettura di un’opera musicale. Le nostre tele esprimeranno quindi anche le equivalenze plastiche dei suoni, dei rumori e degli odori del Teatro, del Music-Hall, del cinematografo, del postribolo, delle stazioni ferroviarie, dei porti, dei garages, delle cliniche, delle officine, ecc. ecc. Dal punto di vista della forma: vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, elissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici, ecc. Dal punto di vista del colore: vi sono suoni, rumori e odori gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti. Nelle stazioni ferroviarie, nelle officine, in tutto il mondo meccanico e sportivo, i suoni, i rumori e gli odori sono in predominanza rossi; nei ristoranti e nei caffè sono argentei, gialli e viola. Mentre i suoni i rumori e gli odori degli animali sono gialli e blu, quelli della donna sono verdi, azzurri e viola. Non esageriamo affermando che gli odori bastano da soli a determinare nel nostro spirito arabeschi di forme e di colori tali da costituire il motivo e giustificare la necessità di un quadro. Tanto è vero che se noi ci chiudiamo in una camera buia (in modo che il senso della vista non funzioni) con dei fiori, della benzina o con altre materie odorifere, il nostro spirito plastico elimina a poco a poco le sensazioni di ricordo e costruisce degl’insiemi plastici specialissimi e in perfetta rispondenza di qualità, di peso e di movimento con gli odori contenuti nella camera. Questi odori, mediante un processo oscuro, sono diventati forza-ambiente determinando quello stato d’animo che per noi pittori futuristi costituisce un puro insieme plastico. Questo ribollimento e turbine di forme e di luci sonore, rumorose e odoranti è stato reso in parte da me nel Funerale Anarchico e in Sobbalzi di fiacre, da Boccioni negli Stati d’animo e nelle Forze d’una strada,da Russolo nella Rivolta e da Severini nel Pan-Pan, quadri violentemente discussi nella nostra prima esposizione di Parigi (febbraio 1912). Questo ribollimento implica una grande emozione e quasi un delirio nell’artista, il quale per dare un vortice, deve essere un vortice di sensazioni, una forza pittorica, e non un freddo intelletto logico. Sappiatelo dunque! Per ottenere questa pittura totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi, pittura-stato d’animo plastico dell’universale, bisogna dipingere, come gli ubbriachi cantano e vomitano, suoni, rumori e odori!”. Carlo Carrá collabora al movimento futurista per sei anni. Dopo aver aderito al movimento di Marinetti, con Boccioni, Russolo, Severini e Balla, Carrà firma con loro sia il Manifesto dei pittori futuristi che il Manifesto tecnico della pittura futurista, entrambi dei nel 1910. Carrà concepiva i suoi quadri come immagini dinamiche ma allo stesso tempo destinate, attraverso il colore, ad eliminare la legge fissa di gravità dei corpi. Questo che abbiamo appena letto, La pittura dei suoni, rumori, odori, del 1913, è il suo personale manifesto dove troviamo la sua originale prospettiva sull’idea di “puro insieme plastico” che accompagna fin dagli esordi l’estetica futurista.
Immagine della puntata: Carlo Carrà, “La galleria di Milano“, 1912
L’ estetica di Carlo Carrà è la proposta ambiziosi di realizzare un’arte totale nel campo della pittura. Nella pittura sognata da Carrà, di cui il movimento futurista è lo spazio di emersione più riuscito, tutti i sensi devono essere coinvolti e diventare parte del complesso plastico. Nel pittura-stato d’animo plastico dell’universale. Nel suo manifesto La pittura dei suoni, rumori, odori, Carrà sottolineava quanto cruciale fosse, per i futuristi, sviluppare fino alle estreme conseguenze le prime rivoluzionarie ricerche degli impressionisti sulla luce e sul colore, e poi le successive sperimentazioni post-impressioniste e cubiste sulla plasticità astratta dell’oggetto del quadro. Il futurismo deve penetrare il cuore dell’oggetto, attraversarne la vibrazione plastica, catturarne il dinamismo. Scriveva Carrà: “Questi insiemi plastici, polifonici e poliritmici astratti risponderanno a necessità di disarmonie interne che noi, pittori futuristi, crediamo indispensabili alla sensibilità pittorica. Questi insiemi plastici sono, per il loro fascino misterioso, più suggestivi di quelli creati dal senso visivo e dal senso tattile, perché più vicini al nostro spirito plastico puro.” (Carrà, La pittura dei suoni, rumori, odori).
Il grande critico d’arte Roberto Longhi riconosce in Carlo Carrà il “primo poderoso riavvio della pittura italiana” in antitesi alla stasi della pittura italiana dell’Ottocento e sottolinea quanto la rivoluzione futurista oltrepassi anche, per innovazione, il movimento cubista. Longhi dichiara infatti che “il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento. Venendo dopo i cubisti, intendo animati inizialmente dallo stesso lirismo, i nuovi pittori si propongono di conservare la cristallizzazione cubistica della forma, e imprimerle moto. Ne risulta la profonda legittimità della nuova tendenza e la sua superiorità sul cubismo” (Longhi, I pittori futuristi, 48). Secondo l’opinione di Longhi, i futuristi riescono nel superamento dell’arte cubista francese perché sono in grado di “imprimere moto a questo raggelarsi, a questa partecipazione della materia propria del cubismo”. Longhi riconosce proprio nell’arte di Carlo Carrà l’impegno della ricerca in questa direzione. La pittura di Carrà è allora uno dei più fulgenti esempi di “pittura pura” di cui si deve parlare “pittoricamente” cioè adottando una scrittura ricca di sfaccettature e dinamica –anch’essa futurista – che si prefigge di corrispondere all’opera pittorica.
Ecco come Longhi descrive uno dei capolavori di Carlo Carrà, il dipinto del 1912, La Galleria di Milano, che è la copertina del nostro podcast di oggi; “Di tendenze assai cubiste è infatti la Galleria di Milano, quadro solidissimo, persino incardinato prospetticamente se ci tenete, dove l’intensità assorbente del chiaroscuro, che riduce i colori originariamente caldissimi e luminosi a certi granelli involti d’ombra, come sotto la cenere, la vacuità slargata dalla luce del gorgo capovolto della cupola, soprattutto lo sfaldarsi della materia in spigoli acuti taglienti, dànno alla composizione un senso costruttivo essenziale” (Longhi, I pittori futuristi, 51). Il dipinto La Galleria di Milano appartiene al periodo di tendenza cubista, e arriva in concomitanza con un soggiorno parigino di Carlo Carrà (nel 1911 e nel 1912 fu a Parigi, dove l’artista italiano conosce Picasso, Modigliani, Braque e Matisse) che lo stesso Carrà riconosce come un momento culminante dello sviluppo della sua poetica. Il dipinto rappresenta la Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, cuore commerciale della città, con locali pubblici, negozi, caffè, che Carrà raffigura, scrive Vilma Torselli, “secondo un’accentuata frammentazione della forma, con evidente modalità cubista, in una contenuta gamma cromatica, anche questa sulla scia del monocromatismo che caratterizza il primo Cubismo di Picasso e Braque.
L’immagine scomposta nei suoi piani e ricostruita secondo una nuova esigenza spaziale che la proponga simultaneamente da più punti di vista, identifica il luogo attraverso poche citazioni, la scritta Biffi, il nome di un celebre caffè, e l’accenno alla forma ottagonale della cupola all’incrocio dei due bracci della Galleria, mentre il senso della vitalità e del movimento, reso dal vivace contrasto luministico che introduce un accentuato gioco di luci ed ombre attuando un ‘concetto dinamico assunto quale elemento fondamentale’, si riallaccia alla ricerca del Futurismo, dal quale Carrà uscirà polemicamente tre anni più tardi. La composizione è pervasa da una tensione dinamica sconosciuta al cubismo picassiano, con il quale Carrà rivendica consapevoli differenze”. Infatti Carrà scriveva che “I cubisti per essere oggettivi si limitavano a considerare le cose girandovi intorno … Noi futuristi invece ci volevamo immedesimare nel centro delle cose, in modo che il nostro io formasse colla loro unicità un solo complesso. Così noi davamo ai piani plastici una espansione sferica nello spazio, ottenendo quel senso di perpetuamente mobile che è proprio di tutto ciò che vive”. (Carrá)
Roberto Longhi, esprimendosi su altri massimi dipinti di Carrà scrive: “Non ancora nella sua Velocità che scompone il cavallo, dove non è che una successione scissa di momenti statici della materia che si ripete spessa e completa nelle diverse posizioni delle zampe, ma più tosto nel suo Ritmo di oggetti è riuscito – con lirica più lontana dalla materialità reale – a rappresentare il movimento, poiché valendosi di elementi di luce che gli erano cari in opere anteriori ha fatto roteare intorno ad un oscuro pernio incentrato dei quadranti luminosi sempre più discosti, così da imprimere all’arabesco lineare un generale effetto rotante” (Longhi, Carlo Carrà, 51). L’opera Ritmi d’oggetti é una fra le più significative opere futuriste di Carrà, e scrive Torselli “sintetizza le due diverse declinazioni del suo linguaggio, da una parte una forte esigenza di dinamismo, dall’altra un’irrinunciabile necessità di strutturazione ordinata nella quale, anche in presenza di una percezione metafisica del reale, non viene mai meno un sostanziale figurativismo e una lettura in chiave naturalistica dell’opera, equilibrato connubio nel quale risiede l’originalità del linguaggio di questo artista”.
Roberto Longhi tiene anche a rimarcare la distanza fra Carlo Carrà e un altro grande esponente della pittura di quel periodo, Giorgio De Chirico: “Il de Chirico, cresciuto in una tradizione per nulla italiana, evocava la pittura antica in una mera scenografia nostalgica, il Quattrocento diveniva il palcoscenico per l’opera dei pupi metafisici, per i convitati di pietra. (…) mitologie (…) servite per giunta da una generica speditezza tecnica (…). Ma Carrà s’era già scelta un’altra strada. Destinato a servire le ragioni proprie della pittura, e assai più convinto che non il De Chirico della portata spirituale insita nelle forme italiane, egli presentava in questi anni una serie di acrostici sibillini, che trovano in sé stessi la forza della soluzione. Si può narrare un quadro di De Chirico; ma in Carrà la favola, meglio delle intitolazioni ambigue, si spreme proprio dagli incastri dei colori fulgidi e torvi, dall’infeltrirsi magico degli impasti, dai duri incontri degli spazi segmentati entro le caramelle primitive. Aspre esercitazioni sugli ‘elementari’ della pittura, esse ci rapiscono, non più come ironiche mitografie di de Chirico, ma proprio con l’alterno ingorgarsi e fiottare della passione che il protagonista pittore prova per il miracolo sempre rinnovato del fare, del produrre pittorico” (Longhi, Carlo Carrà, 70).
La studiosa Maria Cristina Bandera, di questo rapporto di affinità elettiva in senso estetico fra l’artista Carrà e il critico Longhi, scrive che in dipinto come Le figlie di Loth, “Carrà raggiunge, evocandola, l’essenza dell’immagine che colpisce Longhi per quelle ‘quattro parole di natura’ che gli paiono ‘scandite e radianti come in una illuminazione poetica di Ungaretti’. Peculiarità che inducono il critico a descrivere in termini di poesia il dipinto, senza tuttavia lesinare una lettura critica così d’accorgersi – ricordiamoci nel 1937 e quindi a posteriori – che in embrione c’era già il Carrà degli anni a seguire: ‘Quel mare di pietra cupa, quel po’ di misera spuma, il costone brullo umanato dalla porta dell’antro coi riflessi agli orli (…) sono già in nuce la commossa carpenteria mentale del Carrà prossimo a venire, paesista mai veduto(Longhi, Carlo Carrá 43)’” (Bandera 37). Del dipinto Foce del Cinquale del 1926, Longhi sottolinea la grande capacità di Carlo Carrá di rielaborare l’impressionismo in chiave futurista, producendo la “prodigiosa riaccensione di un impressionismo mentale e non fenomenico”. Longhi descrive il dipinto come “carico, minaccioso, deflagrante di colore; emozione pura (…). Sporco l’ho sentito definire da qualche interessato: e sarà, ma al modo che sono sporchi e imbrattati di emozioni certi frammenti di Tiziano vecchio o del migliore Renoir” (Longhi, Carlo Carrà, 44-45). Insomma, per Longhi, anche Carrà “al pari di Cézanne e di Seurat è un solidificatore dell’impressionismo (…) Mentre Cézanne (…) attinge una melanconica beatitudine artigiana dove par che si scaldino al sole mediterraneo gli smalti limosini, le vetrate gotiche e gli arazzi del Trecento; mentre Seurat dopo aver calibrato e rettificato volumi e spazi quasi come un Piero rinato, l’imbotta poi di polvere da sparo versicolare, di cruschello ‘divisionistico’, di grana litografica, e cade, sia pur da grande, in un esanime scientismo; Carrà s’apre una strada diversa e rifiutandosi di riassumere quei precedenti come sufficienza di tecnica sistematica, li riscopre poeticamente come brani, giunture ed accenti da comporre in un canto che ha da trovare il tono in una inclinazione dell’animo. (…) A questo punto la tecnica (…) da vocabolo fisso ridiventa movenza di linguaggio espressivo, da reinventare ogni volta e da qui lo stupore iniziale (…) del ritrovare in un quadro di Carrà una quinta di atavico spazio cubico che si macula di tocchi volanti (…) paesaggio che va oltre il paesaggio; dove l’ordine che regna è composizione di sentimenti primi” (Longhi, Carlo Carrà, 46).
Bibliografia
BANDERA, M.C., Carlo Carrà attraverso la lente di Roberto Longhi.
CARRÀ, C., La pittura dei suoni, rumori, odori, del 1913.
CARRÀ, C., La mia vita, Roma 1943, ora in Id., Tutti gli scritti….
LONGHI, R., Carlo Carrà, Milano 1937, p. 5, ora in Id., Scritti sull’Otto e Novecento: 1925-1966, (Opere complete, XIV), Firenze 1984.
LONGHI, R., I pittori futuristi, in «La Voce», V, 1913, n. 15, pp. 10511053, ora in Id., Scritti giovanili.
TORSELLI, V., Carlo Carrà. La Galleria di Milano, 2007.
Immagine della puntata: Natalia Goncharova, “Aereosu treno“, 1913
L’avanguardia futurista è sempre stata, fin dagli esordi, un movimento di forte vocazione internazionalista. La spinta bellicosa contro l’estetica tradizionale e l’antagonismo giurato nei confronti di ogni modello “passatista” in arte sono atteggiamenti tipici non solo del futurismo italiano in cui questa avanguardia nasce e si sviluppa, ma anche di ogni forma di futurismo all’estero e in generale dell’arte modernista. Nel corso di questa serie sul futurismo, abbiamo avuto modo di esplorare la complessità del movimento futurista, soprattutto per quello che riguarda le reciproche contaminazioni fra l’estetica futurista con quella di altre avanguardie ad essa contemporanee, prima fra tutte il cubismo. I futuristi Umberto Boccioni e Carlo Carrà sono forse i due artisti del movimento che più di altri, sia nell’ambito della pittura che in quello della scultura, hanno mostrato quanto feconde e problematiche fossero le implicazioni di futurismo e cubismo creando spesso opere in cui il “complesso plastico astratto” restava sulla significativa e scivolosa soglia fra dinamismo futurista e scomposizione cubista. Una delle scene artistiche più interessanti riguardo al rapporto fra futurismo e cubismo e in materia di sincretismo estetico (cioè di collaborazione fra avanguardie e altri stili estetici) si apre in ambito russo, e in particolare nell’opera pittorica di Natalia Goncharova. Come giovane pittrice, Goncharova è stata una forza monumentale nell’avanguardia russa, lavorando ed esponendo accanto ad alcuni dei nomi più importanti del primo movimento di pittura astratta, come Kazimir Malevich e Wassily Kandinsky. Natalia Goncharova ha giocato nella storia estetica del Modernismo un ruolo cruciale perché più di chiunque altro della sua generazione ha intuito la complessa relazione che esiste tra Primitivismo e Modernismo: una relazione che ha contribuito a modellare non solo il Futurismo russo, ma tutta l’arte astratta moderna e contemporanea. Lo stile cubo-futurista di Natalia Goncharova è il luogo estetico in cui accade questa importante connessione fra primitivismo e modernismo. Come molti pittori d’avanguardia, anche Natalia Goncharova inizia come scultrice, esplorando lo spazio plastico della materia, ma passa presto alla pittura, dove trova il terreno adatto alla esplorazione innovativa del colore. Era un periodo di cambiamento culturale in Russia. Il movimento artistico “Mir iskusstva”, o Mondo dell’Arte, stava spingendo la classe accademica a rifiutare il realismo tradizionale in favore di voci artistiche più sperimentali e individualistiche.
Goncharova era dalla loro parte. Insieme al suo futuro marito, Mikhail Larionov, e insieme a molti altri degli studenti espulsi dalla scuola russa di pittura per la loro idea d’arte rivoluazionaria, forma un gruppo di artisti outsider chiamato “Fante di diamanti”. È proprio grazie a Natalia Goncharova che il gruppo d’avanguardia smette di imitare le tendenze del modernismo europeo e inizia a cercare e a scoprire cosa potesse essere l’autentico Modernismo russo attraverso una sperimentazione estetica davvero originale. Negli anni successivi, la Goncharova evolve rapidamente il suo punto di vista estetico, rifiutando tutte le autorità sull’arte. Esplora, nello stesso tempo, il primitivismo e la emergente tendenza del Futurismo. Trova ispirazione nei rapporti di colore e nei soggetti legati all’arte popolare russa, mentre dall’atro lato abbraccia la ricerca cubista dell’iperspazio, o in altre parole la nozione razionalista che la velocità può essere espressa visivamente meglio da linee dure e diagonali. Infine, nel suo peculiare modo di far giocare insieme delle componenti estetiche difficilmente assemblabili, interviene anche l’uso dei colori vividi e irrealistici ispirato da artisti francesi post-impressionisti, come Vincent van Gogh e Paul Cézanne. Nel corso di pochi anni la Goncharova combina tutti questi punti di vista per creare una posizione estetica unica, puramente russa, all’avanguardia del modernismo. Idea essenziale, al cuore dell’estetica di Natalia Goncharova è che “nulla rimane uguale a sé stesso”. Tutto si muove in avanti o all’indietro, niente si ferma. Un desiderio instancabile di futuro emerge dalla miriade di cambiamenti che Natalia Goncharova ha esplorato nel suo stile nel corso dei decenni e dall’approccio multidisciplinare che adotta nella sua arte, esplorando scultura, pittura, moda, design grafico, tipografia, illustrazione, letteratura e scenografia. Distruggere il passato, è questa la grande novità di Goncharova, non significa dimenticarlo nella sua interezza: perché vi sia un modernismo che sia autenticamente russo ci si deve, per Goncharova, riconnettere con le radici primitive e profonde della cultura russa. I movimenti artistici successivi, come l’Art Brut e l’Espressionismo astratto, che dichiareranno di innovare questa connessione tra il passato lontano e il momento presente, restano fortemente in debito con Natalia Goncharova: è stata le la prima modernista a collegare saldamente il primitivo con il moderno, e a permettere all’invisibile accordo che collega i due di influenzare il suo lavoro artistico.
Troviamo il nome di Natalia Goncharova come membro di influenti gruppi d’arte d’avanguardia, in Russia e in Europa. Entra infatti a far parte del Cavaliere Blu, fondato da Wassily Kandinsky. La prima mostra del gruppo formato da Goncharova, “Fante di Diamanti”, è del 1910-11 e include dipinti primitivisti e cubisti della Goncharova. Il gruppo si divide a metà nel 1912 per formare il gruppo più provocatorio, dal nome Coda dell’asino. Alla prima mostra di quest’ultimo gruppo (marzo-aprile 1912) organizzata da Larionov, più di cinquanta dipinti di Natalia Goncharova vengono esposti, insieme a opere dei pittori Kazimir Malevich e Marc Chagall. Goncharova traeva ispirazione per il primitivismo dalle icone russe e dall’arte popolare, altrimenti nota come luboks. La mostra Coda dell’Asino fu concepita come una rottura intenzionale dall’influenza dell’arte europea e la creazione di una scuola russa indipendente di arte moderna. Molte delle opere che Goncharova espone in questa mostra, saranno considerate oscene e confiscate ai funzionari russi, in parte perché lei mescolava immagini sacre e profane, e in parte perché vi erano dei tabù per le donne a dipingere icone. Nello stesso anno, il 1912, Goncharova diventa anche un membro fondatore del futurismo russo. L’influenza del Futurismo russo è molto evidente nei dipinti successivi della Goncharova. Inizialmente preoccupata dalla pittura di icone e dal primitivismo dell’arte popolare etnica russa, la Goncharova inizia presto a mescolare elementi cubisti e futuristi nel suo lavoro, il che porta all’inizio del cubo-futurismo russo. In una delle sue interviste, Goncharova dice di aver tratto ispirazione da Picasso e Braque e in Russia diventa famosa per i suoi lavori in stile cubo-futurista, come il dipinto Aereo sopra treno, del 1912, che è la copertina del podcast di oggi. Già nel 1911 però, Goncharova e Larionov sviluppano la versione russa del futurismo, detto “Raggismo” e producono molti dipinti in questo stile. Il dipinto di Natalia Goncharova “Gigli raggisti” del 1913, sarà la copertina del podcast della prossima settimana, che è anche l’ultima puntata di questa serie sul futurismo. Natalia Goncharova riesce nell’arduo compito di fondere il modernismo europeo occidentale con le tradizioni orientali. I temi della sua arte in pittura appartengono alle sfere più diverse e abitano tutte le contraddizioni di una esistenza come la sua, trascorsa tra la vita in campagna e la vita in città. La Mosca urbana, la vita frenetica e i rilassati ritiri estivi in campagna sono molto evidenti nella sua arte. Nel periodo finale della sua produzione artistica, Natalia Goncharova si identifica anche con il movimento d’avanguardia russo detto “Everythingvism” che era considerato come un’estensione del Neo-Primitivismo. Questo genere di arte promuoveva una fusione di molteplici tradizioni culturali, come l’Occidente e l’Oriente e diversi stili come il Cubismo e il Futurismo. L’impegno creativo di Natalia Goncharova non si limita però alla pittura. Nel 1915, infatti, inizia a disegnare costumi e scenografie per il balletto a Ginevra. La Goncharova si trasferisce a Parigi nel 1921 dove disegna alcune scenografie dei Ballets Russes di Diaghilev. Lo stile è influenzato dal suo coinvolgimento nell’avanguardia in combinazione con il suo patrimonio culturale russo. Tra il 1922 e il 1926, la Goncharova crea disegni di moda per il negozio di Marie Cuttoli, la Maison Myrbor in Rue Vincent a Parigi dove la sua eredità slava influenza il design astratto che era favorito dall’avanguardia. I suoi disegni di abiti riccamente ricamati e applicati erano fortemente influenzati dall’arte popolare russa, dal mosaico bizantino e dal suo lavoro per i Ballets Russes. Sperimenta il design astratto, i colori, i modelli, le diverse combinazioni di materiali, reagendo evidentemente contro la moda prevalente dell’orientalismo. Il suo lavoro mostra anche tendenze primitiviste. Il suo lavoro ha avuto una grande influenza sulla moda francese dell’epoca, in particolare con il leggendario stilista Paul Poiret. Artista eclettica, unica, innovativa, Natalia Goncharova rilegge in chiave russa le avanguardie del suo tempo e lancia il futurismo oltre sé stesso, rinnovandone le forme e fornendo lo spazio di irradiazione per le sue molteplici future “linee di fuga”.
Immagine della puntata: Natalia Goncharova, “Gigli raggisti“, 1913
Nel corso del nostro lungo viaggio al cuore della galassia futurista abbiamo potuto esplorare le mille forme che questa avanguardia ha prodotto nei diversi campi dell’arte per sfidare l’estetica tradizionale. Abbiamo anche intravisto le tante irradiazioni sia nazionali che internazionali nelle quali si è tradotta questa “guerra all’arte” dichiarata dai futuristi. Nucleo poetico del futurismo è dunque quello di afferrare il sublime dinamico del mondo e del reale, cardine estetico è quello di creare il complesso plastico astratto del movimento, imperativo teorico è quello di “aumentare la superficie plasticamente realizzabile di un oggetto”. L’arte futurista è per definizione inter-artistica e poliespressiva e come scrive Antonio Saccoccio, “la collaborazione interartistica porta direttamente alla creazione di opere o azioni poliespressive” (Saccoccio, 17).
Il cinematografo si presenta forse come il mezzo più efficace per forzare i confini delle singole arti, quasi uno strumento di distruzione della tradizione artistica, la più potente macchina da guerra futurista in senso poliespressivo e interartistico. Nel manifesto La cinematografia futurista del 1916 i futuristi descrivono infatti il cinema come la somma di tutte le arti “futuristizzate”: “Pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in libertà + intonarumori + architettura + teatro sintetico = Cinematografia futurista. Occorre liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti. Siamo convinti che solo per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono le più moderne ricerche artistiche. Il cinematografo futurista crea appunto oggi la sinfonia poliespressiva …. Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata” (Marinetti, La cinematografia futurista, 140-144). Ma la poliespressività è ambizione futurista essenziale che coinvolge tutte le arti: “Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale” (Marinetti, La cinematografia futurista, 140). Anche in manifestazioni artistiche del tardo Futurismo si può riconoscere la stessa tendenza alla poliespressività. Nel manifesto dal titolo Il teatro totale (1933) Marinetti incorpora ulteriori nuovi media quali il telefono e la radio: “Noi facciamo circolare gli spettatori intorno a molti palcoscenici tondi su cui si svolgono simultaneamente azioni diverse con una vasta graduatoria di intensità con una perfetta organizzazione collaborante di cinematografia radiofonia – telefono – luce elettrica – luce neon – aeropittura – aeropoesia – tattilismo – umorismo e profumo” (Marinetti, Il teatro totale). In una versione del Manifesto emersa più tardi dagli archivi di Marinetti compaiono ulteriori precisazioni che testimoniano ancora una volta la lucidità teorica del fondatore del Futurismo: “Il teatro futurista potrà esprimere la vita contemporanea modificata integralmente dalle grandi scoperte scientifiche e dalle velocità terrestri e marine conquistate; la nostra sensibilità moltiplicata, l’acutezza dei nostri nervi divenuti veggenti. Il teatro futurista sarà la sintesi del mondo. Ci si obietterà che non si può assistere ad una azione drammatica essendo disturbati dallo spettacolo di un’altra azione drammatica: questa obiezione varrebbe per dei campagnoli e degli eremiti ma non per degli abitanti delle metropoli moderne in cui l’uomo pensa, discute, medita, ama, vende, compra, dona, schiaccia, innalza, canta, ride e piange in un turbine di altre vite opposte parallele che moltiplicano pure la loro attività in mille modi diversi” (Marinetti). Per usare le parole di Saccoccio: “tutto prende avvio dalla nuova sensibilità futurista, che spinge a superare i confini tradizionali delle arti, proponendo espressamente una manifestazione al di là della pittura e della scultura. L’ideologia e la poetica globale che sostiene il Futurismo, non conduce soltanto ad opere poliespressive in cui i confini delle singole arti vengono superati. Le conseguenze più radicali si possono rintracciare nell’attività dei singoli artisti. I futuristi sono poeti, pittori, scultori, musicisti, hanno una loro formazione professionale nei rispettivi campi, eppure tendono quasi tutti ad uscire dai confini delle singole arti…Il Futurismo è quindi pervenuto alla poliespressività, alla fusione delle arti e all’artista totale. Ma, proprio perché era provvisto di un’ideologia globale, ha sentito la necessità di spingersi oltre, allargando il campo dell’arte fino ad integrarlo con quello della vita. Tutto viene investito dalla nuova sensibilità, non solo l’arte, ma la vita di tutti i giorni in ogni aspetto. Il Cubismo, con il quale il Futurismo gareggiò a più riprese in alcuni aspetti formali (soprattutto pittorici), è al contrario un’avanguardia che non ha queste pretese totalizzanti, possiamo considerarla un’avanguardia “tecnica”, che non esce dal campo della sperimentazione in un singolo campo artistico” (Saccoccio, 19-21).
Un altro importante studioso del futurismo, Luciano De Maria ha correttamente sottolineato che “Il Futurismo fu, in questo senso, il primo autentico movimento d’avanguardia: gruppo fondato sulla tendenziale affinità elettiva dei componenti e provvisto di un’ideologia globale, artistica ed extra-artistica, abbracciante tutti i settori dell’esperienza, dall’arte alla politica, dalla morale al costume. Il confronto con il cubismo diviene, in questo ordine di idee, oltremodo istruttivo: il cubismo non sconfina dal campo di una sola arte, non tende cioè alla poliespressività futurista. Il Futurismo invece non solo dilaga fin da principio nell’ambito delle differenti arti ma ne travalica lo stesso limite, munendosi appunto di un’ideologia globale” (De Maria, 13).
Questo aspetto della sensibilità futurista ha aperto la strada a numerose successive avanguardie, come l’avanguardia dadaista e quella surrealista che sono animate dallo stesso desiderio della totalità, in cui l’arte non detiene più un ruolo centrale. Renato Barilli ha compreso in modo illuminante che Marinetti “apre la strada al fenomeno della ‘morte dell’arte’, da intendersi in accezione positiva, di allargamento dei poteri dell’uomo, di passaggio a un’età di risorse immateriali, affrancate dall’obbligo fastidioso di appoggiarsi a un oggetto fisicamente greve e ottuso. È la strada che poi verrà approfondita dal dadaismo…’ (Barilli, 54.). Sottolinea a questo proposito Saccoccio: “Nella seconda metà del Novecento, l’avvicinamento tra arte e vita si fa sempre più prepotente. I situazionisti, con la lucidità teorica che li contraddistingue, insistono sulla critica alle singole arti specializzate portando alle estreme conseguenze le intuizioni delle avanguardie storiche. Si punta al superamento dell’arte. Non basta più, quindi, integrare fra loro le arti, ma occorre andare oltre, cancellando la separazione tra arte e vita quotidiana” Nei testi pubblicati sulla rivista Internationale situationniste troviamo continui riferimenti al superamento della tradizionale attività artistica in nome di attività collettive e unitarie che sono già al di fuori dell’arte. Nel primo numero del giugno 1958 l’ ‘urbanismo unitario’ viene così definito: ‘Teoria dell’impiego congiunto delle arti e delle tecniche, che contribuiscono alla costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze comportamentali’ (Internationale situationniste, n. 1, giugno 1958), (Saccoccio, 22). La guerra all’arte iniziata dall’avanguardia futurista culmina con una messa in discussione dell’arte stessa, con una espansione della sperimentazione artistica nella vita. Questo è il prodotto della linea dinamica futurista, di cui parla Roberto Longhi, che infatti afferma: “Immaginiamo dunque, che il pubblico lettore, snebbiati gradualmente i pregiudizi e i precetti (soprattutto quelli della fallita estetica nazionale) che l’ha tenuto lontano dalla pittura pura, sia finalmente disposto a non cercare nel quadro un qualche emotivo estrapittorico: ideali di ogni calibro, letteratura, interpretazione d’interiorità psicologica – e bellezza sensuale… Immaginiamolo per poter entrare subito in argomento e parlare pittoricamente dei pittori futuristi… Veniamo all’essenziale, che è questo: affermando la necessità lirico-pittorica di esprimere il movimento, i futuristi si avviano solidamente per la strada maestra dell’Arte della Pittura. Per non parlare dell’arte estremorientale, che è per tutto il suo corso, capitalmente, ricerca del movimento, è certo che le grandi epoche artistiche occidentali sono pur sempre un avvicendarsi di forma e di movimento. Ogni volta che l’arte raggiunge una saturazione di staticità, di corporeità, s’aggiunge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del moto. Molto comprensivamente, questo rappresentano i Greci di fronte agli Egiziani, i Gotici ai Romani, l’architettura del Quattrocento all’antica, l’architettura Barocca a quella del Rinascimento… E bene, il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento: la liscia facciata di chiesa, una tavola di pietra spessa e robusta, si incurva pressa da una forza gigante. Al cerchio succede l’ellisse. Cerchio è staticità abbandono riposo. Ellisse è cerchio compresso, energia all’opera, movimento. … Ora, venendo dopo i cubisti, intendo animati inizialmente dallo stesso lirismo, i nuovi pittori si propongono di conservare la cristallizzazione cubistica della forma, e imprimerle moto. Il resultato è chiaro: è la disarticolazione completa delle membra della realtà che nel cubismo si erano rattratte, anchilosate, stratificate: il proiettarsi dei cristalli nelle direzioni essenziali che la materia e il movimento richiedono. Ne risulta la profonda legittimità della nuova tendenza e la sua superiorità sul cubismo. … Ora, come imprimere moto a questo raggelarsi, a questa precipitazione della materia propria del cubismo? Per chi comprende, notiamo subito che la rappresentazione de movimento si basa essenzialmente sulla linea, o sulla massa commentata dalla linea. Ora è chiaro che per uscire dall’immobilità cubistica, verso un nuovo stile, è necessario che dalla ‘linea in funzione di massa’ si proceda – volendo conservare la massa, cioè la corporeità delle cose, come i futuristi intendono fare – alla ‘massa in funzione di linea’. I cubisti si sono forse creati l’illusione che per dar moto basti la curva, mentre non basta uscir dalla retta, ma bisogna dall’arco di cerchio – cui essi si sono limitati – procedere verso la curva viva, verso l’ellisse o il frammento dell’ellisse che ci porge il senso vero dello svincolarsi della materia… E non è forse nelle grandi orbite astrali che si rivela – accompagnando il solito senso di stupore – quella estetica elementare, in un semplice raffronto fra l’equilibrio (statico) dell’orbita della terra, e il disequilibrio (dinamico) di quella di una cometa? … Di tendenza statica del resto erano i noti consigli di Cézanne: sfera, cono, cilindro. Non v’è forse che Picasso nel suo Uomo Nudo che abbia compreso quale sia il genere di curve che racchiudono il moto: lá, da quel gheriglio elissoidale si sferrano curve rade e ampie che fan procedere il corpo come per torsione…. Un momento. Cosa è questo parlare di valore statico e valore dinamico delle linee? Ecco. Bisogna pur parlarne perché è questo, soltanto questo il loro valore prettamente figurativo. È vero che non so quale estetico italiano ha detto che le linee hanno come tali un valore puramente geometrico, ma si tratta di persone irrimediabilmente chiuse all’arte. Volendo usare scherzosamente il linguaggio della filosofia corrente in Italia bisognerebbe dire che questo valore geometrico delle linee si basa sopra uno pseudoconcetto che ha come presupposto il concetto puro di intuizione estetica. Insomma, una retta o una curva hanno un valore assolutamente fantastico, in sé, perché anche quando sono visibilmente astratte da qualche particolare oggetto noi le valorizziamo fulmineamente attribuendo loro una funzione plastica, come limite di materia. Una retta, o si può dentellare in millimetri, oppure, riempita di tacche invisibili di vibrazioni atomiche, dalla nostra immaginazione, si percepisce sotto tutte e nessuna, ad un tempo, delle innumerevoli forme che può assumere nella realtà: il dorso teso di un cavallo, la cornice pomiciata di uno specchio, lo spigolo stuccato di un muro, o il margine di un indice additante. E una curva. Una semplice curva irregolare, nel passar da concava a convessa sfuma nella nostra mente miriadi di visioni: la schiena scavezza di un cavallone da tiro (la curva è pressata al centro): un’amaca (due forze la sospendono ai lati): lo stelo di un fiore incurvato dal vento: il contorno teso di un seno da latte: o l’allegra traiettoria della pisciata di un bambino. Questo valore estetico immanente delle linee è stato ben compreso dai futuristi… non hanno forse qualche ragione i futuristi nel proclamarsi i primitivi di una sensibilitá completamente rinnovata?” (Longhi, I pittori futuristi, 1051-1057). Seguendo Longhi, vediamo come i futuristi sfidano fino all’estremo le possibilità interne della linea e della curva, ne riscrivono il significato in chiave dinamica e danno in via alle altre “fughe” dall’arte in campo artistico. Così come infatti è possibile creare tecnicamente un effetto di prospettiva, segnando un punto di fuga sull’asse dell’orizzonte da cui si dipartono le linee di fuga del paesaggio, possiamo pensare metaforicamente il futurismo come il punto di fuga dell’intero seppur frammentato e variegato paesaggio delle avanguardie, il fulcro da cui si irraggiano le direttrici fuggitive e dinamiche delle avanguardie successive, che corrono via imprevedibili, in ogni direzione. Le linee di fuga dell’arte contemporanea e di quella a venire.
Bibliografia
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MARINETTI, F.T., Il teatro totale, in «Futurismo», II, 19, Roma, 15 gennaio 1933, p. 1.
LONGHI, R., I pittori futuristi, in «La Voce», 1913, n. 15, pp. 10511053, ora in Da Cimabue a Morandi, Mondadori, 1973.
SACCOCCIO, A., La visione globale e poliespressiva del futurismo italiano: verso il superamento della figura dell’artista, in “Le Avanguardie storiche e la collaborazione interartistica”, Franco Cesati Editore, 2014.
VERDONE, M., Teatro totale per masse, in “Il Futurismo”, Roma, Newton Compton, 2003, pp. 84-89.